sabato 22 gennaio 2022
Nel 1981 ancora non facevo questo lavoro e, lo ammetto, non leggevo le Encicliche. Così della Laborem exercens lessi unicamente quanto riportato dal quotidiano che ogni giorno mio padre portava a casa, e anche su altro che mi capitò sotto gli occhi.
Ricordo abbastanza bene che quel testo venne interpretato come una sorta di «sponda» che Papa Wojtyla aveva voluto offrire a Solidarnosc, il sindacato autonomo nato in Polonia, a Danzica, l'anno precedente. Erano anni molto tesi, e quell'interpretazione mi sembrò plausibile. E ancor di più mi sembrò tale quando, nel dicembre dello stesso anno il leader del sindacato, Lech Walesa, venne arrestato. L'enciclica la lessi dieci anni dopo, quando uscì la Centesimus annus, perché un collega dell'Ansa molto più esperto di me, Franco Pisano, mi disse che per capirla bene mi sarebbe stato utile leggere la Laborem exercens. Lo feci, e in effetti tutto mi parve molto più chiaro. Soprattutto, mi resi conto di quanto il mio giudizio, all'epoca, fosse stato quanto meno riduttivo. Mi colpì, in particolare, proprio il passaggio che probabilmente a suo tempo aveva condizionato i commentatori: «Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro... Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa è vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la “Chiesa dei poveri”. E i “poveri” compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione –, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia».
Nell'udienza generale di dieci giorni fa Papa Francesco ha scritto di nuovo toccato il tema del lavoro, partendo dal fatto che San Giuseppe e Gesù erano falegnami. Un fatto, ha detto, che «mi fa pensare a tutti i lavoratori del mondo, in modo particolare a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche; a coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero; alle vittime del lavoro; ai bambini che sono costretti a lavorare e a quelli che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare... Mi permetto di ripetere questo che ho detto: i lavoratori nascosti, i lavoratori che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche: pensiamo a loro. Quello che ti dà dignità non è portare il pane a casa. Tu puoi prenderlo dalla Caritas: no, questo non ti dà dignità. Quello che ti dà dignità è guadagnare il pane, e se noi non diamo alla nostra gente, ai nostri uomini e alle nostre donne, la capacità di guadagnare il pane, questa è un'ingiustizia sociale in quel posto, in quella nazione, in quel continente. I governanti devono dare a tutti la possibilità di guadagnare il pane, perché questo guadagno dà loro la dignità. Il lavoro è un'unzione di dignità, e questo è importante». Dignità, questa è la chiave di tutto.
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