Sul piano delle riforme che riguardano le strutture e il funzionamento della nostra democrazia, la legislatura che si avvia alla conclusione rischia di essere ricordata soltanto per il taglio dei parlamentari. Ormai siamo entrati nell'ultimo dei cinque anni (la legislatura è iniziata il 23 marzo 2018) e della stagione di riforme di cui quel provvedimento poteva e doveva essere il primo passo, si sono perse le tracce. Un'inerzia che finisce per gettare un'ombra anche sul significato della riduzione di deputati e senatori, che pure tanti elettori hanno avallato con il loro voto.
Al momento c'è da segnalare soltanto la modifica costituzionale che consentirà ai diciottenni di votare anche per il Senato, superando così un'asimmetria del corpo elettorale che ha contribuito non poco all'instabilità delle maggioranze di governo. Ma si tratta di un tassello isolato. Certo, la pandemia e la necessità di fronteggiare le sue conseguenze sanitarie e sociali hanno sconvolto tutti i piani e assorbito enormi energie pubbliche. Ma i margini per interventi appropriati c'erano comunque tutti. Del resto la stessa pandemia ha portato in grande evidenza il ruolo delle istituzioni e l'opportunità di mettere meglio a punto alcuni ruoli e meccanismi pur consolidati per poter affrontare in futuro altre sfide più o meno inedite. Contrapporre l'impegno della politica sui temi economici e sociali a quello dedicato ad aggiornare e rafforzare il sistema democratico è un'operazione che si spiega soltanto in un'ottica di propaganda elettorale.
In teoria ci sarebbe ancora tempo per qualche intervento mirato. Martedì scorso la Camera ha respinto la proposta di legge per l'elezione diretta del presidente della Repubblica presentata da Fdi. Un'iniziativa di bandiera che si scontrava, al di là di ogni valutazione politica e di merito, con l'impossibilità pratica di realizzare a breve una riforma che avrebbe modificato addirittura la forma di governo e comportato a cascata tutta una serie di revisioni dell'assetto costituzionale. Nella stessa seduta è stata invece approvata in prima lettura la cosiddetta legge Fornaro, un solo articolo che si propone di eliminare il vincolo della “base regionale” per l'elezione del Senato. È uno di quei provvedimenti che sono stati pensati per bilanciare l'effetto maggioritario del taglio dei parlamentari, a causa del quale nelle Regioni più piccole si determinerebbe una soglia di sbarramento implicita eccessivamente elevata. Eppure, pur non facendo le barricate, il centrodestra ha votato contro, nel timore espressamente dichiarato che quella micro-riforma tecnica potesse rivelarsi il cavallo di Troia per far passare una legge elettorale proporzionale. Gira che ti rigira si torna sempre qui. E pensare che proprio la riforma elettorale, insieme a quella dei regolamenti parlamentari, avrebbe richiesto da subito un'assunzione di responsabilità da parte della politica in seguito al taglio di deputati e senatori. Eleggere Camere drasticamente ridimensionate con la stessa legge concepita per l'assetto attuale è anche intuitivamente discutibile. Tanto più che dal 2018 a oggi è cambiato il mondo e almeno a parole il sistema in vigore non entusiasma nessuno.
Ma le elezioni sono vicine e ognuno fa i propri calcoli confidando nei sondaggi. È fin troppo facile prevedere che non ci sarà alcuna riforma elettorale. Purtroppo.
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