sabato 12 novembre 2011
Lo specialismo eccessivo e separato dal corpo generale del sapere è lo specialismo di chi sa tutto quanto su un frammento dell'universo ma ignora l'universo.

Ormai, quando abbiamo una malattia seria, ci rivolgiamo tutti allo "specialista". Nei dibattiti televisivi non manca mai l'"esperto" di turno. Persino al Concilio Vaticano II c'erano i "periti". Uno dei vocaboli più comuni è "tecnico", e ce ne sono distribuiti in tutti i settori, per cui non basta più l'elettricista se devi riparare un elettrodomestico, ma ci vuole "il tecnico" apposito. Per ricorrere a un altro termine di moda, la "parcellizzazione" è la regola del conoscere, per cui ognuno ha la sua particella di sapere che amministra spesso in modo esclusivo e supponente. Il risultato di questo "specialismo" è ben detto dalla frase del filosofo Uberto Scarpelli sopra citata: si sa tutto di un frammento e si ignora l'insieme, per cui la malattia è guarita, ma il malato può morire per altri effetti collaterali ed esterni a quella sindrome.
Quest'ultimo è il solito e un po' paradossale esempio che viene addotto. È, però, necessario riconoscere che l'antico medico generico aveva una sensibilità più onnicomprensiva e non ignorava che a guarire aiuta anche il calore umano e non solo la competenza scientifica. Ora si privilegia la via secondo la quale si conosce sempre di più su un argomento sempre più piccolo e si perdono di vista gli orizzonti. Questo atteggiamento si riflette anche nell'educazione e nella vita: non si è più capaci di dare un senso unitario e globale alla realtà e alla stessa esistenza. Certo, dobbiamo rimuovere la superficialità del personaggio di Arthur Conan Doyle del quale si diceva che his specialism is omniscience. Onniscienti non siamo, ma neppure monodirezionali, monocromi e riduttivi.
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