Giù le mani. Salvate il Tricolore olimpico
mercoledì 6 gennaio 2021
Ne aveva parlato, dalle colonne di questo quotidiano, Massimiliano Castellani il 7 agosto 2019, esattamente diciassette mesi fa. Un accorato articolo intitolato: «Il Cio avverte. Il brutto autogol sportivo d'una politica autoreferenziale», in cui Castellani raccontava di un dossier, solo quattro (ma esplosive) pagine recapitate dal Comitato Olimpico Internazionale al presidente Giovanni Malagò, dove si paventava che l'ingerenza del Governo italiano rispetto all'autonomia del Coni avrebbe potuto far scattare una «sospensione temporanea» per l'Italia olimpica. Tradotto per i non addetti ai lavori, la stessa punizione già riservata in passato a India e Kuwait (e che sarà riservata alla Russia a causa dello scandalo del doping di Stato): la partecipazione ai Giochi Olimpici di Tokyo dei nostri azzurri sarebbe stata senza il Tricolore, senza l'inno sugli eventuali podi e possibile solo presentandosi in Giappone come "Ioa", ovvero Independent Olympic Athlets.
Eravamo in un'era pre-pandemica, si pensava ancora ai Giochi di Tokyo nella loro collocazione naturale, l'estate del 2020. Ora, dopo diciassette mesi da quell'avvertimento (e dopo il clamoroso rinvio di un anno dei Giochi) siamo esattamente a tre settimane dalla sentenza. Il 27 gennaio, infatti, il comitato esecutivo del Cio si riunirà e la sanzione potrebbe arrivare davvero. Anzi, il presidente Malagò sostiene che questo rischio sia «molto elevato». La causa scatenante è legata alla legge di riforma dello sport e ai tesissimi rapporti fra i soggetti istituzionali che hanno il compito di guidare il movimento sportivo del nostro Paese, ovvero il Ministero dello Sport, Sport e Salute S.p.A. e, naturalmente, il Coni.
Ho una mia idea in proposito che non sarà però oggetto di questo articolo. Perché questo articolo, dopo mesi di difficoltà feroci per il nostro Paese, di lutti, di terrore per la salute, di imposizione della necessaria e innaturale distanza fisica, di lavoro azzerato, di economia devastata, di scuole chiuse, di illusioni e immediate disillusioni, di morale sotto i tacchi e, naturalmente, di sport sull'orlo del collasso, ha tutt'altro obiettivo: nulla di più (ma nulla di meno) di ciò che succedeva duemilacinquecento anni fa e si chiamava ekecheiría, letteralmente "le mani ferme", la famosa tregua olimpica. In tutta la Grecia, in occasione dei Giochi di Olimpia, cessavano tutte le inimicizie pubbliche e private, nessuno doveva sentirsi in pericolo e atleti e spettatori potevano attraversare qualsiasi territorio in sicurezza, per recarsi nella regione dell'Elide e assistere al prodigioso spettacolo atletico. Qui non esprimo opinioni, solo una richiesta: le mani ferme! O meglio ancora: giù le mani!
Giù le mani dalla nostra necessità, aggravata da tutte le incertezze che ancora conosciamo, di vivere un'estate di emozioni e, davvero, di rinascita. Ho avuto l'onore di rappresentare il nostro Paese in due edizioni dei Giochi Olimpici, ad Atene nel 2004 e poi a Londra nel 2012, e non riesco a immaginare un momento più pieno di significato, più capace di unire e di ispirare come questi Giochi, che per la prima volta della loro storia moderna, saranno disputati in un anno dispari. Se in condizioni, diciamo, "normali" i Giochi Olimpici sono un'occasione privilegiata per ritrovarsi come Paese, mai come quest'anno quell'occasione avrà un valore moltiplicato per cento. E, se questo fosse retorica, per una volta evviva la retorica. Dunque, come si farebbe in uno spogliatoio, ci si chiuda in una stanza e prima del 27 gennaio si trovi una soluzione sufficiente a convincere il Cio. Perché dopo tutto quello che abbiamo sofferto (e ancora soffriremo) l'idea di un'estate dove ci si possa emozionare per il nostro tricolore su un podio olimpico magari non sembrerà una priorità, ma diventa un salvagente a cui aggrapparsi con tutte le forze.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: