Formaggi italiani, dilagano i falsi
sabato 21 marzo 2009
Negli Usa i falsi formaggi italiani hanno conquistato i primi posti nelle preferenze dei consumatori, alla faccia di quelli veri. In un universo ormai schizofrenico come quello dei mercati agroalimentari accade anche questo, e non è certo un buon segno.
A dare notizia, in Italia, di quanto accaduto oltre oceano è stata una "stupita" Coldiretti che ha rilanciato, giustamente, la richiesta di strumenti di controllo più efficaci da mettere in gioco. Ma tant'è, per ora siamo solamente in grado di raccontare la storia del "Sarvecchio Parmesan" prodotto in Wisconsin, premiato come miglior formaggio negli Stati Uniti da una giuria che ha condotto ben 1360 assaggi su 60 categorie di formaggi individuando in questo "clone" del Parmigiano Reggiano il suo campione. Un prodotto che, fra l'altro, ha un padre ben definito " la Sartori Food Corporation del Wisconsin " e che quindi non si può certo annoverare nella categoria dei "falsi cinesi" tanto vituperati. E non basta, perché a girare il coltello nella piaga ci si è messo anche il secondo classificato: un altro formaggio duro prodotto in Oregon da latte di capra il cui nome, "Classico", richiama palesemente la tradizione italiana. L'unica " magrissima " consolazione è che al terzo posto si sia classificato un tipico formaggio americano: un cheddar di Chateaugay, New York. Si tratta di una classifica che riflette bene il mercato statunitense, alimentato da una produzione annua locale pari a quasi 1,7 milioni di tonnellate di formaggio contro le appena 30mila importate dall'Italia. D'altra parte " come ha spiegato pure la Coldiretti " il Parmesan è semplicemente la punta di un iceberg che si estende in tutto il mondo. Basta pensare al "Romano" prodotto nell'Illinois con latte di mucca anziché di pecora, al "Parma" venduto in Spagna senza alcun rispetto delle regole del disciplinare del Parmigiano Reggiano oppure alle "Fontine" danese e svedese molto diverse da quella della Val d'Aosta, e ancora all'"Asiago" e al "Gorgonzola" statunitensi oppure al "Cambozola" tedesco ma anche al "Pecorino" ottenuto in Cina da latte di mucca.
E tutto senza contare il resto dei falsi alimentari che coinvolge salumi, vini, condimenti e pasta tanto da far arrivare ad una stima inquietante: nel mondo due piatti italiani su tre sarebbero in realtà ottenuti con ingredienti non originali. Il fatturato? Almeno 50 miliardi di euro. Senza dire di altri primati da dimenticare, come quello che ha segnato l'arrivo sul mercato cinese prima dei falsi italiani e poi di quelli originali.
Che dire di fronte a primati di questo genere? Non certo che il cosiddetto "italian sounding" continua a riscuotere successo, seppur in maniera indiretta. Piuttosto, invece, occorre sottolineare che il gusto italiano deve essere difeso con strumenti nuovi, certo difficili da individuare e ancor più da applicare, ma ormai necessari per tentare di arginare un'emorragia di denaro che, soprattutto in un periodo congiunturale difficile come questo, non è più tollerabile da parte dell'economia agroalimentare italiana.
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