domenica 11 giugno 2023
L’11 giugno del 2019, giusto quattro anni fa, la rivista americana Foreign Affairs, uno dei “pensatoi” più autorevoli sulla politica internazionale, pubblicava un ampio saggio, storico e prospettico, sul rapporto fra la popolazione e la forza delle nazioni. Eloquente il titolo, traducibile così: «Una grande demografia apporta un grande potere». La tesi degli analisti di Washington, secondo cui la dimensione di un popolo ne condiziona e orienta il peso geopolitico, ad orecchie italiane può suonare urticante. Nella nostra memoria storica, espressioni come “il numero è potenza” evocano infatti ambizioni mussoliniane e nefaste esaltazioni sulle conquiste che la famigerata “immensa foresta di otto milioni di baionette” avrebbero dovuto garantire. Nondimeno, il ragionamento di Nicholas Eberstadt dell’American Enterprise, autore dell’articolo, segue una logica stringente, corroborata da una miriade di dati e raffronti difficili da confutare, che spaziano fra la metà dell’Ottocento e i nostri giorni. A suo parere, gli Stati Uniti stanno perdendo, è vero, una certa quota di influenza mondiale, a vantaggio in particolare della Cina. Ma la dinamica demografica comparata lascia ancora al gigante Usa ampi margini di supremazia, soprattutto se la sua diplomazia sarà capace di attrarre nuovi amici tra le nazioni più giovani e in forte espansione dell’Estremo Oriente e dell’Africa. Ciò anche perché i tradizionali alleati europei sembrano destinati a un progressivo e sempre più rapido declino. Quattro anni dopo, quello scenario sembra largamente confermato, specie per quanto riguarda il nostro Continente. Da qualche tempo, del resto, gli allarmi sulla decadenza politica e sociale che offusca l’orizzonte europeo non si contano più. E non pochi collegano il fenomeno al calo relativo della sua popolazione. Ci si sta accorgendo che, tra i partecipanti al “grande gioco” della politica internazionale, il ruolo dell’Europa tende a perdere importanza. Quanto incide in questo ridimensionamento il fatto che da diversi anni nessuno dei 27 Paesi dell’Ue raggiunge un numero di nascite sufficiente a garantire il cosiddetto “tasso di sostituzione” della popolazione (circa 2,1 figli per donna in età feconda)? In apparenza sembrerebbe non esserci una relazione diretta di causa ed effetto, ma in una prospettiva storica, anche di pochi decenni, il nesso si chiarisce. Tra i tanti fenomeni di lungo periodo analizzati, Foreign Affairs ricorda che gli Stati Uniti, tra il 1950 e il 2015, hanno accolto qualcosa come 50 milioni di immigrati, pari a circa la metà di tutte le migrazioni registrate nello stesso periodo di tempo nell’intero pianeta. Questo ha certo contribuito a garantire all’America una dinamica demografica positiva e a mantenere e accrescere la sua leadership internazionale. E la Ue? L’anno scorso le Nazioni Unite, nell’ultimo Rapporto sulla popolazione mondiale, visti gli attuali tassi di natalità e il rapido invecchiamento dei suoi abitanti, hanno affermato che per l’Europa l’unica leva capace di rallentare (si badi: non arrestare o invertire) l’emorragia di abitanti è l’immigrazione. L’unica! Piaccia o no, questo è lo scenario al quale occorre adeguarsi. Sconcerta perciò la miopia con cui i vertici nazionali e dell’Unione continuano ad affrontare quella che si ostinano a definire solo un’emergenza, mentre andrebbe ormai considerata anche un’esigenza. Si tratta, in definitiva, di cominciare a scrivere una nuova pagina della storia europea, impresa che richiede lungimiranza e mani sapienti. © riproduzione riservata
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