martedì 12 gennaio 2021
Dopo l'Europa del carbone e dell'acciaio, dopo l'Europa verde agricola, dopo quella seppur non completa della moneta e anche l'ormai vicina Europa delle banche, riusciremo ad avere un'Europa della salute? Una domanda cruciale in questo inizio 2021 segnato da accese polemiche sui vaccini anti-Covid, mentre la morsa del virus non sembra assolutamente allentare la presa sul nostro Continente, forse mai così unito e "omogeneo" proprio a causa di questo frangente doloroso.
Tra poco sarà trascorso un anno esatto dal primo vertice dei ministri della sanità (13 febbraio 2020), convocato per valutare la pandemia arrivata da Wuhan. Una riunione organizzata con evidente ritardo, rispetto ai diversi casi all'epoca già segnalati, e non soltanto in Italia. In quella circostanza la commissaria Ue competente, la cipriota Stella Kyriakides, esortò i 27 Paesi membri a un'azione più coordinata, pur ricordando che la politica sanitaria esula dalle materie assegnate dai Trattati direttamente a Bruxelles.
Da allora le centinaia di migliaia di morti e il succedersi di allarmi, ondate e lockdown hanno imposto una doverosa accelerazione e infine un ripensamento strategico. Già nella tarda primavera l'Eurobarometro segnalava che più di due cittadini dell'Unione su tre (69 per cento) chiedevano un più forte ruolo della Ue nella lotta al coronavirus e ad altre calamità del genere. Tuttavia soltanto l'11 novembre scorso la Commissione ha lanciato formalmente la proposta di una "Unione europea della salute", che la presidente Von der Leyen ha definito urgente in questi termini: «Non possiamo aspettare la fine della pandemia per riparare e prepararci per il futuro».
Nel frattempo si è imposta – ed è stato anche un bene – la questione dei vaccini ed è scattata una successione convulsa di annunci su validazioni, acquisti, distribuzione e somministrazione in
tutto il territorio della Ue. Sono volate accuse da alcune capitali nei confronti dell'Esecutivo, accompagnate da polemiche incrociate per ritardi e criteri di assegnazione delle dosi. In realtà la Commissione ha fatto nel complesso un buon lavoro, tenendo conto delle circostanze e della mancanza di criteri di intervento sperimentati in precedenza.
Ma proprio questo è il nodo maggiore da sciogliere, per un futuro che non si annuncia per niente facile sul piano epidemiologico. In questa materia l'Europa non può continuare a procedere sulla base di mediazioni e trattative estenuanti. È indispensabile avviare una piattaforma operativa unica, con una chiara suddivisione di ruoli e competenze stabilite fra Bruxelles e le singoli amministrazioni statali e regionali.
Gli obiettivi indicati sulla carta dal programma di novembre appaiono convincenti. Si parla tra l'altro di attivare un sistema centralizzato per dichiarare stati di emergenza, di creare una task force sanitaria della Ue per reperire e formare personale, di rendere possibile un monitoraggio unico e aggiornato delle epidemie e dei livelli di rischio, di coordinare e verificare con tanto di "stress test" i piani nazionali di risposta, di dar vita a una centrale unitaria di acquisto di medicinali e dispositivi medici.
Adesso però bisogna passare subito ai fatti. Dal 1° gennaio scorso il timone politico dell'Unione è passato dalla tedesca Angela Merkel ad Antonio Costa, il primo ministro del Portogallo, al quale spetta la presidenza di turno del Consiglio europeo nel primo semestre 2021. Lisbona ha annunciato di voler sostenere la creazione di una Unione europea della Sanità. È dunque lecito attendersi iniziative concrete e incisive. Il premier lusitano punta molto sul "pilastro" dei diritti sociali. Visti i tempi, il diritto dei cittadini europei alla salute va messo senza dubbio al primo posto.
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