mercoledì 13 aprile 2011
Avevamo lasciato Curzia Ferrari col suo elegante Fondotinta del 2006 (sembra ieri), ed eccola con la nuova raccolta di poesie scritte nel frattempo: Lucertola, ancora per Nino Aragno Editore (pp. 180, euro 13), con dedica a Raffaele Crovi che di Aragno fu il compianto innovatore.
Non solo: Curzia Ferrari, come slavista, è in libreria con Il bacio dell'icona, poesie di Anna Achmatova, tradotte con testo a fronte per chi ha il talento di leggere il russo, nella splendida collana L'oblò, di Àncora Editrice, diretta da Antonio Spadaro. Ferrari vi premette uno studio esauriente sulla grande«Anna di tutte le Russie», che qui ci limitiamo a consigliare, perché al momento ci occupiamo solo delle poesie di Lucertola, alcune delle quali erano state anticipate in Girodivite, plaquette per bibliofili numero 216 di Signum edizioni d'arte, con sette acqueforti dell'autrice che, come se non bastasse, è anche apprezzata pittrice.
Il coraggio e la sincerità di Curzia Ferrari si rivelano della breve introduzione in cui la poetessa si domanda perché si scrive ancora poesia. Cita Shakespeare: «La poesia più vera è quella più finta»; cita Rimbaud che «a un certo punto della vita ebbe il sospetto che esistesse un nesso tra poesia e scemenza»; cita il discorso a Stoccolma di Montale per il Nobel: «La poesia è un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo». La risposta definitiva la suggeriamo con il poeta cileno José Miguel Ibáñez Langlois: La profonda inutilità del bello. Sì, si scrive poesia per il gratuito servizio alla bellezza (anche Kant sarebbe d'accordo), e Franco Loi, in coda alla Lucertola, ha gioco facile nell'incoraggiare Curzia a non desistere dallo scrivere. Raccomandazione superflua, perché di scrivere Curzia Ferrari non potrà comunque fare a meno. Ma che poesia è, quella di Curzia, anche romanziera e saggista? Qui si entra nel difficile. Perché è una poesia lucertola che guizza come il verde lampo dell'animaletto, «piccolo iguana polivalente» che guarda «la gente come se non ci fosse». E questo è il primo compito del poeta: guardare la gente come se non ci fosse; guardare sé stesso come non essendoci, meno «dentro di sé» che «attraverso di sé». Curzia Ferrari filtra attraverso la sua sensibilità le vicende personali per renderle paradigmatiche per il lettore, si tratti del ricordo/rimpianto per un marito maleamato, o di localizzazioni spaziali (Parigi, Venezia, le Dolomiti) che diventano paesaggi dell'anima. Ci sono scene di alta disperazione: «Rassegnati " tu che ami l'eleganza " / a questo straccio di tristezza che ogni mattina / togli dall'attaccapanni vicino al letto, e lo indossi / per il funerale della giornata» (Girodivite), e nell'Andante per un poeta si può forse leggere la drammatica esperienza/conclusione del rapporto con Salvatore Quasimodo, di cui Curzia Ferrari è stata ultima amica: col distacco degli anni, ormai, Curzia può riconoscere «quanto teatro vibrasse nella tua ira». Ma è lo stile, la scrittura, ciò che più intriga. Poesia senza metrica (solo occasionalmente qualche inevitabile endecasillabo) ma mai in prosa, eppure con un metronomo interno che scandisce obbligatoriamente la lettura; poesia che racconta ma la storia è già metaforizzata, e le immagini, precise fino alla sgradevolezza («I bicchieri lucenti come denti rifatti / nelle gengive della consolle antica»), sono correlativi oggettivi. La perentorietà del verso, variamente disposto sulla pagina, si spiega (senza forse) con «la voglia di imporre il risultato / in una forma perfetta». E poi: «Ai piedi della Storia / pigolo come fra i ceppi di un tiglio / un passero spaventato», requiem per la poesia «civile» da chiunque praticata, mentre (ma Curzia Ferrari non segue il proprio consiglio) «saggia dolcezza è dimenticare».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI