mercoledì 25 marzo 2020
“Esodo” è la “via d'uscita (ex, hodós)” da un luogo che non ci appartiene e non sentiamo nostro verso un luogo che ci somiglia o ci è promesso; "esilio" a volte scelto, a volte imposto, e sempre e comunque sofferto. Ma “esodo” - nelle sue originarie valenze greche e nelle sue risonanze bibliche - è parola che dice insieme la meta e il passaggio, l'arrivo e il viaggio in corso, il rifugio agognato e la fuga dolorosa. “Esodo” è parola dal timbro severo: ci ricorda che sempre e perennemente, come singoli e come comunità, omnes peregrini sumus (Agostino); ci educa a dubitare di ogni stabilità apparente; ci insegna che l'"autoctonia", cioè la pretesa di essere autentici e unici nativi (autóchthonoi) delle nostre mille “piccole patrie”, non esiste se non nei miti puerili dell'antica propaganda ateniese, e di quanti oggi se ne fanno ignari epigoni; ci richiama al senso profondo di un altro “esodo”, l'ultimo, che attende tutti noi, e che ci dovrebbe rendere più disponibili all'accoglienza dell'altro e più vigili dinanzi a ogni ottuso egocentrismo. Se «scendiamo dal cielo in terra», ammonisce Seneca nella Consolazione alla madre Elvia (7, 1 sgg.), «vedremo che genti e popoli interi hanno mutato sede» (sedem mutasse), che «niente è mai rimasto là dove è nato» (nihil eodem loco mansisse) e che «ininterrotto è il via vai del genere umano» (assiduus discursus).
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