giovedì 23 gennaio 2020
Noi parliamo male. C'è un inganno, un'ipocrisia, una non-verità nelle nostre parole: scriviamo flessibilità ma i giovani leggono disoccupazione, usiamo l'eufemismo economia sommersa ma sappiamo bene che si tratta di lavoro nero, diciamo guerra preventiva ma gli interessati vivono un'aggressione; e mai fu parola più opaca della sbandierata trasparenza. Questa deriva e degenerazione di un linguaggio disossato e artificiale investe e sfigura parole che ritenevamo durature e universalmente condivise: la dignità ridotta a un decreto, la politica a un contratto, la pace a condono fiscale. Abbiamo bisogno di un'ecologia linguistica che ci metta a parte di quel significato profondo e vitale delle parole che abbiamo smarrito. Tra queste, una soffre di particolare mortificazione e rimozione: maestro, parola concorrente con "padre" e "madre" per bellezza, nobiltà e potenza evocativa. "Maestro" (magister) è colui che ha un ruolo superiore (magis), contrapposto a "ministro" (minister), colui che ha un ruolo inferiore (minus). Sono termini del linguaggio religioso: il primo era il celebrante principale, il secondo era l'assistente, il servitore. Segno di tempi malsani: noi abbiamo sostituito al rispetto e all'ammirazione per i Maestri l'ossequio e il servilismo per i Ministri.
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