mercoledì 1 febbraio 2012
A parte l'uso irritante dei trattini (de-finizione, pre-esistente, pre-visioni), il breve saggio di Ilvo Diamanti dal titolo un po' forzato Gramsci, Manzoni e mia suocera (il Mulino, pagine 120, euro 10,00), corredato di terroristica (per ampiezza) bibliografia, non è privo d'interesse. Il sottotitolo «Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche», spiega il contenuto ed è polemico verso i politologi, quindi è anche parzialmente autocritico, dato che Ilvo Diamanti è professore di Scienza e Comunicazione politica nell'Università di Urbino.
Che cosa sostengono i politologi dall'alto delle loro teorie? Affermano che le democrazie europee si orientano verso la personalizzazione e il rafforzamento dei poteri degli esecutivi; verso la personalizzazione dei partiti; verso la mediatizzazione e la personalizzazione della scena politica. Tramontati i partiti ideologici e di massa, l'elettorato sarebbe condizionato soprattutto dalle prestazioni «attoriali» dei leader che partecipano ai talk-show. Ma è proprio così?
Dati alla mano, Diamanti (viene voglia di scriverlo col trattino: Di-amanti) dimostra la sostanziale fedeltà dell'elettorato italiano, distinguendo tre tipi di voto: il voto di scambio (tra benefici e consenso) prevale nel Mezzogiorno; il voto di opinione è espresso nel Nord-Ovest metropolitano; il voto di appartenenza (ispirato dall'ideologia, dall'identità etnica e religiosa, cioè dalla tradizione) caratterizza le regioni del Centro (ormai più rosa che rosse) e del Nord-Est (centrodestra).
L'influenza dei media risulta meno determinante di quanto i politologi sospettino, dato che, come aveva scritto Bourdieu nel 1996, «gli individui si espongono ai media più per trovare conferma alle loro opinioni che per cambiarle». Decisivi, invece, sono i «micro-climi d'opinione», che influiscono sulle scelte di chi condivide territori e tradizioni. Così, sostiene Diamanti, le campagne elettorali più efficaci sono quelle che mirano non tanto a «cambiare il senso comune», ma, semmai, a intercettarlo e a scriverlo all'interno delle proprie strategie politiche e comunicative». Come ha fatto Berlusconi che ha reso il «comunismo», ideologicamente archiviato, sinonimo di «ingerenza del pubblico, dello Stato, del fisco».
Non bisogna sfidare il «senso comune». Ne ha fatto le spese la Lega insistendo sulla «Padania» nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia: gli italiani, nel profondo, si sentono «italiani», compresi 3 su 4 elettori della Lega.
Per dare ragione del titolo: la «suocera» di Diamanti c'entra per l'aneddoto da lei raccontato della vecchietta che al supermercato inveiva contro Prodi per il rincaro dei prezzi, quando al governo c'era Berlusconi, a riprova della persistenza ostinata nelle proprie opinioni. Gramsci è tirato in ballo per la distinzione tra «buon senso» e «senso comune», sulla scorta di una citazione del Manzoni. Il quale, nei Promessi sposi, annotava che al tempo della peste «c'era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l'opinione volgare diffusa». Perché, aggiungeva Manzoni, «il buon senso c'era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».
La citazione però interrompe il ragionamento di Diamanti: le strategie che sanno interpretare il «senso comune» saranno le più efficaci elettoralmente, ma saranno anche le più rispettose del bene comune? Come ammonisce il Manzoni, il «buon senso» (razionale, morale) può confliggere con il «senso comune».
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