mercoledì 29 aprile 2020
«Si esce poco la sera, compreso quando è festa», cantava Lucio Dalla nell'"Anno che verrà", che descrive un po' la situazione in cui ci troviamo ora, nelle settimane che mostrano una difficoltà più di carattere sociale che sanitaria. Nelle poche volte che sono uscito, non ho trovato il deserto delle settimane scorse, ma molta più gente in giro, che magari sceglie vie periferiche dove passeggiare. È indubbio che lo spavento di marzo abbia infuso in tutti un senso di responsabilità maggiore, che s'è tramutato in controllo sociale, in assenza di un improbabile presidio capillare delle forze dell'ordine. Ora, se un dato che in qualche modo ha contribuito a ridimensionare i contagi è questo atteggiamento collettivo, perché vengono protratte misure che stanno mettendo in ginocchio l'economia? Un macellaio che maneggia con le dovute cautele carni di ogni tipo può tranquillamente lavorare, ma un pasticciere no? Perché uno deve vivere, economicamente parlando, e l'altro morire? Lo stesso dicasi per i ristoranti, che sono microimprese sul filo del rasoio. E non ce la fanno più: un mese fa la differenza e quello di maggio avrebbe potuto rappresentare la graduale riapertura con tutti gli accorgimenti necessari. Avrebbero garantito le distanze, il personale si sarebbe attrezzato di conseguenza, per incominciare a convivere con un virus che potrebbe perdere vigore nelle prossime settimane. E invece i ristoranti saranno gli ultimi ad aprire.
Leggo i dati di un nuovo sondaggio che ho lanciato a inizio settimana e il 55,8% dichiara che diminuirà il personale. Ma diminuirà anche l'offerta dei piatti, così come i prezzi. Nel frattempo cuochi e titolari di locali mi scrivono: non vogliamo abbassare la qualità e spezzare la filiera con i nostri fornitori: contadini e artigiani. Ma come è possibile? C'è poi chi viene preso dalla rabbia e vorrebbe mollare tutto, ma con due figli piccoli come si può? Chiedono l'estensione della cassa integrazione, un credito a fondo perduto, il blocco degli F24, mentre le uniche soluzioni volgono a indebitarsi fino al collo, di fronte a un periodo incerto (torneranno i clienti?). Se la situazione politica di oggi fosse quella di 30 anni fa, la gente avrebbe avuto un ambito di ascolto, che erano i partiti. C'era l'onorevole del collegio che a sua volta portava a Roma le istanze. In quei partiti di cui ci siamo liberati si trasmetteva il sentire popolare. Oggi non è più così: si guarda la tivù con la sensazione che vi sia un solo uomo al comando, bravissima persona, ma limitata nel coraggio di prendere le decisioni. Ma se la situazione, obtorto collo è questa, non resta che lanciare questo appello: ascoltare. L'unità del Paese si costruisce favorendo il vaglio di ogni istanza, affinché nessuno si senta perduto.
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