domenica 18 dicembre 2011
Questa rubrica, da cui anche recentemente alcune frecce sono state lanciate all'indirizzo di Gustavo Zagrebelsky, oggi farà invece propri, volentieri, gli argomenti del Presidente emerito della Corte Costituzionale, il quale in un'intervista al Fatto Quotidiano (mercoledì 14) afferma che «il diritto di morire non esiste». E precisa: «L'omicidio del consenziente e l'istigazione o aiuto al suicidio sono delitti [...] Se tu ti uccidi da solo, questo è un fatto, che resta entro la tua personale sfera giuridica. Ma se entra in gioco qualcun altro, diventa un fatto sociale [...] Può la società dire: va bene, togliti di mezzo e io pure ti aiuto a farlo? [...] Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni». E ancora: «Una cosa è il suicidio come fatto individuale; un'altra, il suicidio socialmente organizzato. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare almeno, se non è possibile [...] Non c'è un "diritto di morire"». Questa espressione – scrive Zagrebelsky – «contiene una contraddizione. Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità». Ecco una testimonianza "laica" e basata solo sulla logica. Il diritto, che – com'è evidente per tutti – riguarda la vita e ciò che, ad essa è legato, da essa si attende; questo anche per chi non crede e chi pensa che la morte sia il nulla. Quando, come spesso fa anche un luminare della medicina, si parla di "diritto alla morte", si dimostra di non sapere che cos'è il diritto. È vero ciò che afferma Zagrebelsky all'inizio della sua intervista: il diritto è «uno strumento attraverso cui scrutare un orizzonte più profondo», non «una corruzione del comune sentire». Come nel caso in questione.

VIVA IL RAZIONALISMO
I "laici", come si è appena visto, sanno usare le loro capacità razionali, spesso notevoli. È anche il caso dell'ambasciatore Sergio Romano che, sul Corriere della sera risponde (mercoledì 14) a due domande di lettori sulla questione dell'Ici e degli immobili della Chiesa. Ecco che cosa scrive: «Uno Stato laico e agnostico dovrebbe [...] chiedersi anzitutto se le attività di una istituzione religiosa o di una qualsiasi associazione privata abbiano una rilevanza pubblica e siano utili alla comunità nazionale [...] Sono utili tutte le attività che hanno una finalità pubblica, condivisa dallo Stato, e alleggeriscono il peso dei suoi compiti. Penso all'educazione, all'assistenza sanitaria, alle opere di carità per gli indigenti, all'accoglienza e all'ospitalità di studenti che provengono da altre città. So che un ostello della gioventù o un'opera pia [...] possono servire a propagare la fede. Ma uno Stato laico e agnostico [...] se giunge alla conclusione che sono pubblicamente utili [...] non vedo perché non debba diminuire il loro carico fiscale. E non sarei contrario allo sgravio neppure se l'istituzione, oltre a svolgere attività pubblicamente utili, avesse un bar, un ristorante e qualche stanza a pagamento per i pellegrini di passaggio. Se non è una società per azioni, non distribuisce i dividendi e non arricchisce i suoi gestori, devo presumere, salvo prova contraria, che si serva dei suoi ricavi per meglio svolgere la propria opera». Bisogna proprio dirlo? Viva il razionalismo.
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