domenica 18 febbraio 2007
È tardi ormai e noi ci siamo persi in questo oceano: una barca, le nuvole, la notte" Noi remiamo nell'oceano di Dio, ma accanto abbiamo la sua grazia e il suo aiuto. Una notte illune, con un cielo coperto di nubi, una barca che scivola sulle onde, un'immensità che ci intimorisce: è questa la scena sottesa ai versi che abbiamo desunto dalle "quartine" di uno dei massimi poeti mistici musulmani, Gialâl al-Dîn Rûmî, vissuto nel XIII sec. e fondatore a Konya, in Turchia, dei «dervisci danzanti». È un'immagine cara ad altri mistici, come il cristiano Fray Luis de León che nel '500 scriveva: «In Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga». Ma anche uno scrittore agnostico come Dino Buzzati confessava: «Laggiù all'orizzonte sulle acque amare, deserte, naviga certe sere Dio con una sua barchetta, invisibile passerà accanto a te che nuoti disperato e ti toccherà con la sua mano». Alla barca dell'uomo l'autore del Deserto dei Tartari aveva qui accostato la barchetta di Dio che viene a salvare l'uomo stesso immerso nelle «acque amare» della prova. Rûmî, invece, pensa all'oceano del mistero divino nel quale ci si inoltra sostenuti dalla grazia. In entrambi i casi fondamentale è appunto la mano di Dio che ti afferra e ti guida. Anche il Salmista cantava: «Il Signore stese la mano dall'alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene» (18, 17.20). Dovremmo, più spesso, nel tempo del dolore ma anche nei giorni della luce, ritrovare la fiducia di non essere soli. Quando si stende la notte come un sudario sull'anima e ci sentiamo persi e abbandonati, bisogna avere occhi puri per vedere il Signore che, come a Pietro sulle acque, tende la sua mano sicura.
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