venerdì 21 novembre 2008
Per fortuna Marcello Lippi è Marcello Lippi. Sarebbe un guaio se credesse di essere il bicampione del mondo (1934 e '38 e unico oro olimpico nel '36) Vittorio Pozzo. Fanno di tutto per convincerlo, dopo il record delle trentuno partite utili consecutive, ottenuto l'altra sera ad Atene (1-1 contro la Grecia), ma lui resiste, impavido, ai leccalecca. Certo, è compiaciuto dei risultati. Perché a differenza degli esteti, a lui i risultati (positivi) interessano assai. È' con i risultati che ha vinto un Mondiale, non con le chiacchiere. E tuttavia deve ascoltare colleghi frustrati o invidiosi o sbruffoni che criticano con livore il calcio italiano: comincia Mourinho, che per ora ci ha fatto vedere solo una modesta interpretazione del calcio italiano; gli salta in groppa, felice, Arrigo Sacchi il quale, avendo un'ottima Nazionale (c'era Baggio) istruita a giocare secondo le sue idee, nel '94 è stato capace di perdere un titolo mondiale con il più scassato Brasile di tutti i tempi. Balle, balle: la nostra Nazionale, campione del mondo, è una delle poche "istituzioni" italiche esportabili, meritevole di ammirazione per se stessa e i suoi uomini ormai appetiti come un tempo i brasiliani; e il campionato, che taluno vorrebbe sminuito dalla presenza di Napoli, Udinese e Lazio lassù, è ancora, sicuramente, il più divertente del mondo, per l'esclusiva carica emotiva che lo produce e che produce. Gli statistici che campano di confronti numerici improponibili farebbero bene piuttosto a confrontare Pozzo e Lippi su altri piani. Le critiche estetiche che colpiscono Marcello - ad esempio - sono nulla rispetto a quelle che toccarono al gran Vittorio, che dai giornalisti dell'epoca (Carlin Bergoglio in testa, e più tardi Gianni Brera) prese tremende randellate anche dopo aver vinto il primo titolo, e il secondo, finchè non lo costrinsero alla resa. Lui ballava coi lupi, Lippi balla coi pupi. Un altro termine di confronto, le convocazioni: se è vero (ma non ci credo) che Lippi sarebbe pronto a lasciare a casa Alessandro Del Piero, non farebbe altro che imitare Vittorio Pozzo che riuscì a non far giocare i Mondiali a Fulvio Bernardini, il miglior giocatore degli anni Trenta, dotato di tecnica sopraffina e (sua la definizione) «piedi buoni». Lo chiamò, il ruvido alpino, e gli spiegò ch'era costretto a scartarlo «per eccesso di intelligenza calcistica». «Hai capito? - mi diceva Fulvio, ridendo con gli occhi lucidi - . Non sono diventato campione del mondo perchè ero troppo bravo». Ci sarà Del Piero, in Sudafrica o sarà scartato perchè «troppo bravo?».
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