mercoledì 15 novembre 2017
Esperta di Risorgimento e di Illuminismo, Giovanna Zavatti entra nel salotto milanese dei fratelli Pietro e Alessandro Verri con Un piccolo libro famoso e un gruppo di amici (BookTime, pagine 68, euro 7,00). Il “piccolo libro“ è nientemeno che Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, sul quale apprendiamo informazioni e troviamo conferme.
In una lettera del 1° novembre 1765, Pietro Verri racconta la genesi del capolavoro, nato nel suo salotto con suo fratello Alessandro, Luigi Lambertenghi e Cesare Beccaria. Fu Pietro, che già stava scrivendo Sulla Tortura a suggerire il tema a Beccaria, avendo quest'ultimo difficoltà di scrittura e una certa ipocondria: «È tanto laborioso per lui lo scrivere», afferma Pietro, «e gli costa un tale sforzo che dopo un'ora cade e non può reggere. Ammassato che ebbe il materiale», continua il Verri maggiore, «io lo scrissi e si diede un ordine, e si formò un libro». Chi, dunque, è l'autore? I Verri e gli altri Illuministi milanesi attribuirono a Beccaria il capolavoro, e nondimeno la citata lettera genera sospetto. Si tenga presente che quando il libro fu pubblicato, nel 1764, Beccaria aveva 26 anni, Pietro Verri, dieci di più.
Bel personaggio, comunque, il Beccaria. Si intestardì a sposare la non aristocratica Teresa Blasco e suo padre lo cacciò di casa. E c'è un passaggio boccaccesco: «Quando i due giovani sposi erano stati accolti da Pietro (Verri), il matrimonio “carnale” non era stato ancora consumato e fu Pietro, per primo e di nascosto, a “conoscere” la sposa dell'amico. Quasi certamente la bambina che nacque, Giulia, era figlia di Verri». Giulia sarà la futura madre di Alessandro Manzoni, il quale, com'è quasi noto, non fu figlio dell'anziano Pietro Manzoni bensì di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. Un bel guazzabuglio.
Di fatto, Cesare Beccaria non si interessò mai della figlia, e anche l'amore per Teresa svanì presto: Teresa morì il 14 marzo 1774 e solo 82 giorni dopo Beccaria sposò Anna Barbò, da cui ebbe il figlio Giulio.
Zavatti racconta questi e altri particolari in forma di dialogo teatrale attingendo però agli scritti originali dei protagonisti, e ammette, in una specie di autointervista, di essere stata tentata di abbandonare il progetto dopo aver scoperto la tresca Verri-Beccaria. Tuttavia, «indipendentemente da debolezze e limiti, la grandezza dei loro scritti resta inalterata, dono prezioso in quell'epoca e punto di riferimento costante per tutti noi».
L'autrice non entra nel merito del capolavoro di Beccaria, e può essere non inutile ricordare che la di lui contrarietà alla pena di morte non era assoluta: «La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione». Inoltre, «io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte». Fu questo l'argomento addotto da Robespierre per condannare Luigi XVI alla ghigliottina.
Anche sulle leggi che vietano il porto d'armi, Beccaria aveva idee chiare: «Tali leggi non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie?». Tali leggi «peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati».
Insomma, quando si risale alle fonti si trovano sorprese che ridimensionano i luoghi comuni, non solo sul libertinaggio degli Illuministi milanesi.
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