giovedì 23 marzo 2023
Era bello, quando i figli erano piccolissimi, osservare lo stupore nei loro sguardi quando vedevano per la prima volta la neve che cadeva in falde lente, o il fuoco, il falò ardente di una notte di Ferragosto. Era bellissimo ritrovare negli occhi dei figli la meraviglia e la gioia per qualcosa di mai visto, l’allungare la mano a cercare di sfiorare quella sconosciuta meraviglia. Nei loro occhi affondavo, e ritrovavo il mio stupore infantile, che come ogni adulto avevo dimenticato. Perché c’è questo fatto singolare: quasi tutto ciò che vediamo e sentiamo nei primi tre anni di vita, viene dimenticato dalla memoria cosciente. Eppure rimane, quanto rimane, nel cuore di un uomo. Sono anzi, quelle immagini cadute nell’oblio, le nostre fondamenta. Un bambino abbandonato o maltrattato nei primi anni ne porterà il segno per sempre, senza capirlo, senza saper decifrare l’origine di un dolore profondo e tenace. Un bambino amato crescerà come certo che, al di là di ogni avversità, la vita è una cosa buona. E quindi quei primi trentasei mesi, poi rimossi dalla coscienza, sono la terra nera e grassa di un orto in cui occorre gettare, abbondanti, semi di piante e di fiori, e lavorare il terreno, e aspettare la pioggia, e poi il sole. Su quell’orto invisibile sorgerà il bambino, e l’adulto. Ti ricordi, gli chiederà magari la madre un giorno, la prima volta che hai visto il mare? No, il bambino non ricorda niente. (Ma tu, te ne ricordi benissimo: come a un anno, su una spiaggia in Toscana, lui restò sbalordito davanti al mare immenso, e per qualche secondo muto. E poi si voltò verso di te e ti abbracciò e ti baciò, felice, grato, come se gli avessi fatto un bellissimo regalo. Tu, giovane, seduta a riva ridevi stupita: ma Pietro, gli dicevi, guarda che non lo ha mica fatto la mamma, il mare). Dunque loro non ricordano, e un po’ ti dispiace, e vorresti raccontarglielo, di quando salutavano ad una ad una le mucche al pascolo, in montagna, o come in campagna una mattina contemplarono per ore una scatola di cartone davanti alla porta, in cui una gatta aveva deposto nella notte la sua cucciolata. Vorresti che quei momenti per te indimenticabili appartenessero anche a loro. Ma no, sono laggiù, nell’orto. Nell’ombra dell’inconscio, e tuttavia colonne portanti. Stanno, i ricordi silenziosi, in un’aura incerta fra la notte e la luce, dove però anche una ferita da poco può diventare profonda, e non guarire mai, la cicatrice. Dove una parola cattiva può essere un colpo d’ascia. Magari è detta per sbaglio, senza pensarci, da un buon padre. Quell’orto in alcuni è lacerato, o costellato di buche non più colmabili. La follia non attinge forse a quelle radici contorte? E certe crudeltà efferate di cui leggi nelle cronache, non viene da domandarsi chi, e che cosa aveva seminato in quell’orto, fino ad averlo annichilito? Solo Dio sa ogni cosa, ogni momento, solo la sua misericordia comprende e perdona. C’è un luogo, però, in cui talvolta affiora, la traccia di un ricordo della prima infanzia: è il sogno. Mi capita di risvegliarmi con negli occhi l’erba alta, a giugno, nei prati delle Dolomiti, di rivederla molto più alta di me, che non avevo ancora tre anni e giocavo a fare la tigre nella giungla, avanzando fra i fiori e i calabroni. Ho risentito davvero l’odore di quell’erba, e il profumo dolcissimo del fieno, mentre le donne falciavano sotto il sole. Si, raramente, certe notti da quell’orto riaffiorano volti, colori, profumi: brevi, inafferrabili. E mi risveglio allora come mi fosse rinnovata una promessa – come se in quei giorni dimenticati consistesse il paradiso, in cui io spero.
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