Karachi in Pakistan non è decisamente un posto semplice per i cristiani: in un Paese a stragrande maggioranza musulmana, la difesa dei loro diritti passa attraverso drammi come quelli delle ragazzine rapite per matrimoni forzati. O come la pericolosissima accusa di blasfemia, macabro pretesto religioso utilizzato per compiere vendette personali (ricordiamo tutti il caso di Asia Bibi, la donna di Lahore rimasta in carcere per 8 anni con questa accusa infondata). Eppure, qualche giorno fa - proprio alla vigilia dei riti della Settimana Santa - la diocesi di Karachi ha compiuto una scelta a prima vista sorprendente: ha deciso di organizzare in prima persona un iftar, la cena che nel mese sacro del Ramadan rompe al tramonto il digiuno islamico.
In una grande città del Pakistan non mancano di certo ai musulmani i luoghi e le occasioni dove riunirsi per una cena del Ramadan. Ma la Chiesa cattolica locale ha sentito il bisogno di organizzarne una anche nei suoi ambienti, invitando a partecipare alcune realtà musulmane. Un momento durante il quale l’arcivescovo monsignor Benny Mario Travas ha spiegato a tutti il messaggio scelto come tema per l’evento: «Uniamo le nostre mani per servire il nostro amato Paese». Ripensavo a questa storia mentre in Italia in queste ore divampano ancora in maniera accesa le polemiche sul Ramadan, a partire dal caso della sospensione delle lezioni decisa dalla scuola di Pioltello in occasione della festa islamica dell’Eid Al Fitr. Un istituto, tra l’altro, intitolato proprio al dodicenne (cristiano) pachistano Iqbal Masih, coraggioso portavoce dei bambini sfruttati in una fabbrica di tappeti, che il 16 aprile 1995 a Lahore fu ucciso mentre tornava a casa dopo la Messa di Pasqua.
Vista dall’Asia, la discussione italiana sul Ramadan appare lontana. Perché - anche nelle situazioni più difficili per i cristiani - se esiste un momento propizio per l’incontro, è proprio il Ramadan. Vivere fianco a fianco, infatti, porta a confrontarsi anche con la vita spirituale dell’altro. Ed è il motivo per cui tra i cattolici di Karachi non suscita scandalo il fatto che l’arcidiocesi organizzi un iftar. Sanno tutti bene, infatti, che non si tratta di un gesto di sudditanza. A promuoverlo è la stessa Chiesa pachistana che lotta direttamente per i diritti delle minoranze non-islamiche. Appena pochi giorni fa, a Lahore, si è conclusa la fase diocesana della causa di beatificazione del primo servo di Dio locale, il giovane Akash Bashir, morto da martire a 20 anni nel 2015 per aver cercato di proteggere gli altri fedeli fuori dalla chiesa di San Giovanni a Youhanabad, durante una delle più sanguinose stragi islamiste degli ultimi anni. È una Chiesa, dunque, che non ha nessuna voglia di dimenticare o di chiudere gli occhi sulle violenze che subisce.
Ma, proprio da queste sue sofferenze, ha imparato che la fraternità è l’unica via in grado di cambiare davvero le cose. Succede a Karachi. Lo stesso però si potrebbe dire anche per tante altre realtà dove i cristiani perseguitati non sono una categoria astratta, ma persone con volti e storie ben precise: per loro dialogo interreligioso e difesa dei propri diritti non sono due realtà in contraddizione, ma una sintesi essenziale da trovare. Del resto, nella storia stessa dell’Asia, proprio le feste religiose e i santuari spesso sono stati occasioni di incontro. E allora, come si rallegrano nel vedere anche musulmani e indù davanti alla grotta della Madonna, alcuni cristiani oggi decidono di imbandire un iftar. Senza la pretesa che questo da solo risolva i problemi. Ma come un primo passo per imparare a rispettarsi e ad amarsi davvero.