Dal calcio non solo messaggi in bottiglia
mercoledì 23 ottobre 2019
Nel corso dell'ultima settimana sono arrivati, a chi si occupa di comunicazione sportiva, alcuni piccoli segnali dal mondo del calcio. Piccoli, ma incoraggianti e sui quali vale la pena ritornare. Prima un tweet del Pescara, che ha "licenziato" un proprio tifoso che si era espresso in termini razzisti, poi un altro della Roma che si è scusata con il giocatore della Sampdoria, Ronaldo Vieira, per i soliti ululati imbecilli.
Le grandi inversioni di tendenza, anche quelle culturali, partono sempre da piccoli dettagli che iniziano a cambiare un paradigma e a far guardare le cose da un punto di vista diverso. È affascinante l'idea di leggere in questo modo quei due messaggi rinchiusi in una (virtuale) bottiglia e gettati nel mare, talvolta putrido, della rete. Per molto tempo tanti club calcistici sono stati ostaggio delle loro tifoserie organizzate. Hanno concesso molto (al confine e, in qualche caso, oltre il confine della legalità) alimentando la sopravvivenza di una specie di microeconomia, spesso legata alla vendita di biglietti per le partite, che in qualche modo conveniva a tutti e barattando compromessi con una certa tranquillità di operare e meno contestazioni. Adesso (a maggior ragione dopo alcune importanti operazioni di Polizia nei confronti di gruppi ultras diventati veri e propri territori di delinquenza) è possibile che la musica stia cambiando? L'enorme potenziale educativo dei club calcistici nei confronti dei propri tifosi inizia forse a delinearsi come un obiettivo o, almeno, come una possibile strategia di comunicazione?
Riuscire non solo a prendere le distanze, azione semplice e abbastanza priva di rischi, ma esplicitare la propria opinione rispetto ad alcuni fenomeni della società, appare oggi come il volo di una di una rondine che porterà, prima o poi, la primavera? L'azione simbolica del Pescara (rinunciare a un proprio tifoso, ma soprattutto dirlo pubblicamente), oppure la capacità di chiedere scusa, come ha fatto la Roma, sono tutt'altro che fatti scontati e dimostrano la volontà di non sentirsi più follower dei propri followers. I club, soprattutto quelli calcistici, sono innegabilmente punto di riferimento di ampissime comunità di persone che si riconoscono in una maglia o in una storia e sono decine gli esempi virtuosi a cui ispirarsi in giro per il mondo, basta saper copiare. Ci sono club che ripudiano la guerra e le discriminazioni nel loro stesso statuto (come il St. Pauli di Amburgo, già citato in questa mia rubrica la settimana scorsa per aver licenziato un proprio atleta turco che aveva pubblicamente sostenuto l'offensiva militare contro il popolo curdo), altri che si prendono letteralmente cura della salute dei propri tifosi. Molti club inglesi di Premier League hanno una sorta di politica interna di welfare che permette ai propri abbonati di accedere a check-up medici, partecipare a programmi di prevenzione contro l'obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari. Insomma, che bello quando un club capace di muovere le passioni di migliaia o milioni di tifosi, diventa modello ed esempio di un certo modo di stare al mondo. È un'azione che costruisce cultura e non costa neanche tanto, giusto un po' di sensibilità e attenzione. Un modo, brillante, di usare la propria popolarità, ed esercitare una leadership. Certo non piacerà a tutti, ci saranno frange di estremisti del tifo che se ne avranno a male: “Beh, facciamo noi” scriverebbe quell'anonimo e geniale gestore della comunicazione del Pescara Calcio, con il dito pronto a cliccare sul tasto defollow.
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