Da Rio a PyeongChang: così Pita ha mosso la montagna
mercoledì 24 gennaio 2018
Si chiama Pita Taufatofua, nome particolarmente esotico che rimanda immediatamente alle sue origini. Pita è infatti un bel ragazzone di 34 anni per 100 kg di fibra muscolare, da vero atleta.
È nato in Australia, ma cresciuto e vissuto nell'isola di Tonga che ben rappresenta dal punto di vista sportivo. Pita, atleta di Taekwondo fin dalla giovane età, è stato addirittura il portabandiera della piccola delegazione di sette atleti tonghiani capaci di qualificarsi ai Giochi Olimpici di Rio 2016: due centometristi, due nuotatori, due arcieri e lui. Fino a qui la storia sarebbe originale e appunto, esotica, essendo Tonga un regno che sta a mollo nel mezzo dell'Oceano Pacifico, 2.500 km a Nord-Est della Nuova Zelanda e 5.000 km a Sud-Ovest delle Hawaii. Scrivete "Tonga" nella finestra di ricerca di Google immagini e vi compariranno decine di fotografie di un vero e incontaminato paradiso terrestre, un po' di foto di rugby, lo sport nazionale, l'immagine del Re (si chiama Tupou VI, nome che trovo bellissimo per una testa coronata) e poi troverete lui.
Già, perché l'immagine di Pita nello stadio Maracanà di Rio, con addosso una lunga gonna tradizionale e, soprattutto, a petto nudo e coperto di olio come un culturista era diventata virale. Le telecamere della regia brasiliana avevano a lungo indugiato su pettorali, bicipiti e addominali rilanciandoli nei televisori di circa tre miliardi di persone del pianeta, mandando in visibilio quanto meno la parte femminile. Facciamo, così per stima approssimativa, un miliardo e mezzo di donne? Sembrava tutto finito lì, in quei pochi secondi di celebrità planetaria, con una storia sportiva data in pasto, con un pizzico di malizia, a un principio estetico un po' piacione. Pita non combinò nulla di rilevante nella gara di Taekowondo a Rio, ma la storia interessante incominciò al rientro. Perché, come spesso succede, il virus olimpico si impossessa in maniera totalizzante di coloro che hanno la fortuna di esserne stati contaminati. Così Pita, dopo Rio, mette nel mirino il vero sogno impossibile: i Giochi Olimpici invernali. Per Tonga, dove (perdonate le mie scarse conoscenze meteorologiche in caso di errore) credo proprio che la neve non l'abbiano mai vista. Pita mette le rotelle, si allena come un matto con gli skyroll per le strade dell'isola. Testimonia il suo lavoro ossessivo con una precisa documentazione fotografica, finché, 3 giorni fa atterra in un'altra isola, in questo caso 15.000 km in linea d'aria a nord ovest, l'Islanda, dove indossa gli sci da fondo, gareggia e si qualifica per i Giochi Olimpici di PyeongChang che inizieranno fra 18 giorni. Ora, al di là di qualche ulteriore concessione all'estetica legata alle sue fotografie in maniche corte di fronte ai ghiacci eterni islandesi, la cosa curiosa è scoprire che questo bel ragazzone, che entra nel limitato club degli atleti capaci di competere sia ai Giochi estivi sia a quelli invernali, sia un atleta che si allena più di sei ore al giorno, sia laureato in Ingegneria, lavori in un centro dove si insegna a ragazzi abbandonati e senza fissa dimora a sviluppare talenti e mestieri che possano renderli indipendenti e che abbia spiegato la sua impresa sportiva dicendo che prima della sua gara di qualificazione abbia a lungo pregato e festeggiato l'impresa riuscita citando un versetto il Vangelo di Matteo 17:20: «Se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: "Spostati da qui a là", ed esso si sposterà e nulla vi sarà impossibile».
Pita aggiunge il suo nome alla infinita lista di sportivi capaci di ispirare il mondo, a prescindere dalla grandezza del proprio risultato agonistico. C'è un solo precedente di un atleta di Tonga ai Giochi invernali: si chiama Fuahea Semi, slittinista che prese parte ai Giochi di Sochi quattro anni fa. Si qualificò e decise di partecipare cambiando il suo nome di battesimo in Bruno Banani, lo stesso nome di una marca di indumenti intimi tedeschi che lo aveva sponsorizzato e finanziato. Il Comitato Olimpico Internazionale si infuriò e definì l'operazione: «Una perversa idea di marketing». Se Pita (come credo inevitabile) sarà, dopo Rio, il portabandiera della delegazione di Tonga anche ai Giochi invernali, resta un ultimo punto interrogativo: sfilerà, visto il clima, con addosso almeno la maglietta della salute?
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