Così i social penalizzano l’informazione di qualità
venerdì 6 ottobre 2023
C’è stato un tempo, diciamo fino a cinque o sei anni fa, nel quale i social erano un alleato potente
per chi faceva informazione. Bastava pubblicare un post con un articolo su Twitter e Facebook, per vedere aumentare a dismisura il numero dei suoi lettori digitali. Anche i commenti fioccavano e così le condivisioni. Addirittura per alcuni utenti, condividere un articolo con un’analisi anche impegnativa era una sorta di status. Senza quasi accorgersene, i media ne hanno abusato, producendo un sovraccarico informativo che ha finito con l’allontanare molti. Nel frattempo, la litigiosità sui social è aumentata a dismisura. E così una parte consistente di persone ha smesso di condividere articoli per non dovere discutere con gli “amici digitali”. In più gli editori hanno cominciato a chiedere alle piattaforme di riconoscere loro una parte dei guadagni realizzati dalla pubblicità pubblicata attorno ai loro contenuti. Per tutta risposta Google e Facebook hanno cominciato a penalizzare i contenuti degli editori. Al punto che oggi l’articolo di un giornale pubblicato su Facebook viene mostrato in prima battuta a meno del 3% delle persone che seguono la sua pagina. Per raggiungere risultati più consistenti bisogna provocare quante più reazioni possibili attorno ai post social. C’è chi lo fa con titoli particolarmente forti, chi con contenuti che provocano e chi con immagini grandi sulle quali vengono impresse frasi e slogan a effetto. A volte funziona, altre volte meno. Nel frattempo, negli ultimi mesi, Elon Musk ha deciso di penalizzare i giornali anche su X, l’ex Twitter. Prima l’ha fatto abbassando la visibilità dei contenuti degli editori, poi ha iniziato a mostrare a tutti i numeri di quanti utenti (spesso poche migliaia) avevano visto il post di un giornale. Col risultato (voluto) di farli apparire (tutti) molto meno di peso di quello che i lettori pensavano. Da qualche ora, Musk ha fatto un’altra mossa che penalizza ulteriormente chi fa informazione: su X sta togliendo dai post dei giornali i titoli e i link agli articoli. Chi vuole ancora leggerli, deve cliccare sulla foto che accompagna il post o sulla scritta, molto piccola (e solo con il nome della testata), che compare in un angolo dell’immagine. «Vogliamo che le persone passino più tempo dentro la nostra piattaforma», ha fatto sapere. Da quando per le piattaforme è diventato quasi impossibile raccogliere e vendere i dati degli utenti, il tempo speso dagli utenti nei loro recinti digitali è diventata la nuova moneta di scambio. Bisogna penalizzare quindi chi vorrebbe uscire dai social per andare sul sito di un giornale (o su qualunque altro sito) per leggere un articolo o un contenuto. Le mosse
delle piattaforme per penalizzare i giornali, secondo uno studio di Similarweb, nell’ultimo anno «hanno fatto crollare il traffico proveniente da X e Facebook» (Instagram e TikTok non hanno mai portato tanti clic ai giornali). È un dato che merita attenzione e che tocca tutti, lettori compresi. Ciò che sta avvenendo infatti non è soltanto una sfida tra media, ma una guerra che ha al centro la libertà di informazione. Secondo il sito americano Axios, «gli sforzi per raggiungere gli elettori con informazioni attendibili stanno diventando sempre più difficili». Vale in America, dove nel 2024 ci saranno le elezioni, come in Europa e in Italia. «Le piattaforme tecnologiche sfruttano le cosiddette tendenze virali» (e le polemiche e le liti di giornata) e penalizzano le notizie di qualità. Con il risultato che ci perdiamo tutti. Noi che facciamo informazione e voi che vorreste essere informati bene. Per Axios non ci restano che due soluzioni: proteggere meglio i contenuti di qualità senza regalarli alle piattaforme e produrli sempre meglio.
Dobbiamo passare dal tanto e dai tanti al meno, per meno persone, ma con più qualità. © riproduzione riservata
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