domenica 12 giugno 2011
Poco basta a consolarci, perché poco basta ad affliggerci.

È accaduto a tutti di vivere una giornata serena, segnata persino dall'allegria. All'improvviso, un imprevisto, un piccolo incidente ci fa piombare nell'amarezza. Ma la nube non staziona sistematicamente all'orizzonte e qualche ora dopo " dimenticato quell'infortunio " ritorna il sorriso sulle labbra. È, questa, la mutevolezza tipica della persona umana e a ricordarcelo è il grande Pascal in uno dei suoi Pensieri (n. 136) che oggi abbiamo proposto nella sua essenzialità. In un altro passo, egli mette in scena un uomo che sta giocando a palla ed è così preso dai passaggi da dimenticare l'incubo che pure gli gonfia il cuore (n. 140). Io, però, vorrei proporre ai miei lettori un'altra riflessione, partendo da un punto di vista inatteso, ossia dalla radice che sta alla base della parola «consolare».
Ebbene, l'etimologia di questo vocabolo è il termine «solo»: quindi «consolare» è sostanzialmente «stare con uno che è solo». L'idea è suggestiva perché tanta tristezza o dolore nasce proprio dall'essere soli e abbandonati, privi di una presenza che ti riscaldi, di una mano che ti accarezzi, di una parola che spezzi il silenzio e le lacrime. Aveva ragione il poeta spagnolo novecentesco Pedro Salinas quando scriveva che «le mani di chi ama terminano in angeli», sono presenze angeliche che spezzano la solitudine dell'infelicità. Non per nulla la parola «desolato» significa in radice «essere solo» pienamente. Come affermava il romanziere Vladimir Nabokov, «la solitudine è il campo da gioco di Satana», ed è per questo che lo Spirito Santo è detto «il Consolatore».
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