mercoledì 8 aprile 2009
Nel suo nuovo libro, Un incontro, uscito quasi contemporaneamente in Francia e in Italia (traduzione di Massimo Rizzante, Adelphi, pp. 192, euro 17), Milan Kundera ha riunito ventiquattro brevi saggi (alcuni brevissimi) scritti negli anni e talvolta rielaborati. Dato il numero, il titolo descrittivo avrebbe richiesto il plurale (Incontri), ma il singolare è appropriato, perché effettivamente si tratta sempre e comunque di un incontro di Kundera con sé stesso, con i suoi temi, le sue ossessioni. Temi e ossessioni principali che si rincorrono di libro in libro, e sono: l'esilio, il riso, il sesso, la musica, il cane.
Il concetto di esilio è qui condiviso con la conterranea Vera Linhartová, non come rimpianto o nostalgia (com'è arcinoto, Kundera, esule politico boemo, vive a Parigi dal 1975), bensì come liberazione, come realizzazione nomadica del desiderio (finalmente) di "vivere altrove". Il tema del riso, del comico (a cui Kundera ha dedicato il fondamentale Libro del riso e dell'oblio) è in sintonia con Rabelais, oggi più godibile in una buona traduzione - sostiene Kundera - che non nel suo «francese antico, polveroso, arcaico, scolastico». Il sesso, questa volta preso a pretesto da Anatole France, è, come sempre nell'autore dell'Insostenibile leggerezza dell'essere, disperantemente fisiologico, «ma solo con un lieve, lieve, lieve velo di tristezza...».
Sulla musica ci sono pagine importanti su Janácek e Schönberg. E siccome in ogni romanzo di Kundera, in posizione non secondaria, c'è sempre un cane, credo che l'affermazione di Curzio Malaparte nella Pelle, a proposito del cane Febo («Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo») sia stata determinante nell'entusiasmo di Kundera per questo scrittore italiano che resta di seconda scelta.
Del resto, ciascuno ha le sue selettive predilezioni. Scrive Kundera: «Di Conrad io ho letto due romanzi, il mio amico uno solo che io non conosco. Eppure ciascuno di noi, in perfetta buonafede (in perfetta insolenza) è certo di avere di Conrad un'idea giusta». Insolenza che arriva fino a questo punto: «Penso a Solzenicyn. Era un grand'uomo, ma anche un grande romanziere? Come posso saperlo? Non ho mai aperto nemmeno uno dei suoi libri. Le sue clamorose prese di posizione (di cui ammiravo il coraggio) mi inducevano a ritenere di conoscere in anticipo tutto quello che aveva da dire».
Insieme a parecchie osservazioni intelligenti, nel nuovo libro (che non ha la forza dell'Arte del romanzo, o dei Testamenti traditi) ci sono anche numerose sciocchezze, ad alta concentrazione nel saggio d'apertura dedicato a Francis Bacon, pittore per me incomprensibilmente apprezzato anche in certi ambienti cattolici. Kundera sottolinea questa affermazione che Bacon condivide col Picasso del 1926-1932: «Una forma organica che rimanda all'immagine umana ma ne rappresenta una totale distorsione». E più sotto: «Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora sé stesso? Dov'è la frontiera al di là della quale un "io" cessa di essere un "io"?». La domanda (ingenua) a cui né Bacon né Kundera (né Picasso) danno risposta è: «Perché mai impegnarsi per dare dell'uomo un'immagine distorta, oltretutto totalmente distorta?». La risposta alla seconda, duplice domanda, la diamo noi, ed è scandalosamente semplice: «Un io è sempre un io, indipendentemente da chi lo osserva e da come lo stesso io si percepisce». Stop.
Kundera, all'inizio del saggio su Bacon, racconta che nel 1972, mentre a Praga ascoltava una ragazza spaventata dopo un interrogatorio della polizia, ebbe l'impulso di violentarla. Per fortuna della ragazza, di Kundera e anche di noi che lo stiamo ad ascoltare, lo scrittore seppe trattenersi. Ma in Bacon egli legge e ammira «quel gesto brutale, quel movimento della mano che deforma il volto dell'altro». È proprio il non sapersi trattenere di Bacon, a non piacermi. Quanto alle predilezioni selettive e all'insolenza di cui più sopra, tengo a dichiarare che io ho letto tutto, ma proprio tutto Kundera, e continuerò a leggerlo.
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