mercoledì 1 settembre 2010
«Tutte le cose visibili son Emblemi; ciò che vedi non è lì senza ragione; a rigor di termini non è affatto lì; la Materia esiste solo spiritualmente e per rappresentare qualche Idea e incarnarla. Perciò gli Abiti, benché li riteniamo disprezzabili, sono indicibilmenbte significativi«. E ancora: «Il linguaggio viene chiamato Veste del Pensiero; si dovrebbe piuttosto dire: il linguaggio è l'Abito di Carne, il Corpo del Pensiero. Le metafore sono la sua materia prima«. Questo è il nocciolo «filosofico» di Sartor Resartus (Il sarto rappezzato) che Thomas Carlyle (1797-1881) pubblicò negli Stati Uniti nel 1836, con un'entusiasta prefazione di Ralph Waldo Emerson. L'edizione inglese uscì due anni dopo. Da queste intuizioni ci si aspetterebbe un trattato di «filosofia degli Abiti», invece Sartor Resartus è un'impressionante coacervo di digressioni, di allusioni, di riflessioni di costume, che non poteva non incantare Jorge Luis Borges, appassionato di biblioteche e labirinti, che propiziò nel 1945 l'edizione argentina del Sartor, allegando una «nota preliminare» riprodotta nella nuova edizione italiana pubblicata da Liberilibri (pp. 390, euro 20). In Italia questo stupefacente lavoro, che si caratterizza anche per un inopinato uso delle maiuscole, era apparso nel 1905, nella traduzione di Francesco e Giacinto Chimenti, che Laterza ristampò nel 1910 e nel 1924. Su questa traduzione si basa la nuova versione di Carla Maggiori, che ha curato anche alcune sintetiche e indispensabili note. Il libro si presenta come compilazione di un Editore che ha fortunosamente ricevuto una farraginosa copia della «Filosofia degli Abiti» del prof. Diogenes («Di origini divine») Teufelsdröckh («Feci del diavolo»), e si compone di tre parti: la prima è una presentazione prolissa e immaginifica dell'intento dell'opera; la seconda è una ridondante biografia di Teufelsdröckh; la terza espone più da vicino la «filosofia degli abiti», con argute e salaci considerazioni sui moderni costumi d'Inghilterra, «la più ricca e la peggio istruita fra le nazioni Europee», in cui operano la setta dei Dandy e quella dei Poveri Schiavi (o Sgobboni). Il Dandy, convinto che «il buonsenso di un uomo si esprime soprattutto nei suoi gemelli», è dedito «al culto di sé stesso, del Demonio», e mentre gli altri «si vestono per vivere, egli vive per vestirsi»; lo Sgobbone, soprattutto irlandese, si nutre di patate e si dedica al «Faticoso Culto della Terra, ovvero a qualsiasi altro lavoro duro». Il giudizio sulla società nella quale le due Sette diramano le loro propaggini è duro: «Il Tessuto Nervoso Pericardico della Religione [Carlyle è calvinista], in cui risiede l'Essenza Vitale della Società, è stato colpito e perforato, sicché ora è praticamente ridotto a brandelli»; «la CHIESA crolla ammutolita a causa dell'obesità e dell'apoplessia, e lo STATO è ridotto a un Ufficio di Polizia, che ha difficoltà a riscuotere la sua paga». E tuttavia, assicura l'Editore, «Teufelsdröckh è pago del fatto che la vecchia Società ammalata venga deliberatamente bruciata (con un combustibile, ahimè, tutt'altro che profumato), fiducioso che essa sia una Fenice, e che una nuova Società, giovane e d'origine celeste, risorgerà dalle sue ceneri». Carlyle, sinceramente conservatore («Amici!, non vi fidate del cuore di chi non venera gli Abiti Vecchi»), è convinto che «tutti i Simboli non sono che Abiti; che tutte le Forme, con cui lo Spirito si manifesta ai sensi, sia esternamente che nell'immaginazione, sono Abiti; e che allo stesso modo non solo la pergamena della Magna Charta, che poco mancò non fosse tagliata da un Sarto per farne un modello, ma anche la Pompa e l'Autorità della Legge, la Sacralità della Maestà, e tutti i Culti inferiori non sono che una Veste, un Abbigliamento». Peccato che queste interessanti suggestioni siano disperse nel maremagnum di questo ingombrante scartafaccio da cui ci si congeda, come autocriticamente afferma Carlyle stesso, con «un sentimento misto di sbalordimento, gratitudine e disapprovazione».
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