mercoledì 18 maggio 2011
Il professor Francesco Remotti è ordinario di Antropologia culturale nell'Università di Torino. Studioso e interprete di Claude Lévi-Strauss, ha svolto ricerche etnostoriche nell'Africa equatoriale e nel 2008 ha pubblicato l'infelice pamphlet Contro natura. Una lettera al Papa, che su queste pagine venne con eleganza confutato da Lucetta Scaraffia e da Vittorio Possenti il 28 febbraio di quell'anno. Remotti torna ora in libreria con Cultura. Dalla complessità all'impoverimento, novità della collana Antropologia diretta da lui stesso per Laterza (pp. 320, euro 24). Niente polemiche, questa volta (niente polemiche dirette, almeno), bensì un testo scientifico, ricco di riflessioni documentate, con ampio repertorio bibliografico internazionale. Il tema centrale che assilla Remotti è il rapporto natura/cultura, in difesa di una concezione della cultura come «contesto di simboli condivisi» che oggigiorno sembrerebbe non godere di particolare favore presso gli antropologi culturali. Qui non possiamo entrare dettagliatamente nel merito delle argomentazioni di Remotti, e non solo per ragioni di spazio. Ma quello che si può pianamente affermare è la diversità di piani su cui si colloca l'antropologia di Remotti rispetto all'antropologia a cui fa riferimento Benedetto XVI in continuità con la tradizione magisteriale della Chiesa. Nell'antropologia (culturale) di Remotti la «natura» tende a ridursi al dato biologico, all'evoluzione del cervello umano nel corso dei millenni, di pari passo con le acquisizioni «culturali» della manualità e del linguaggio. Nel magistero della Chiesa la natura è invece un concetto «metafisico» che sta alla base di qualunque acquisizione culturale, e senza metafisica non può trovare fondamento alcun sistema morale e alcun sistema sociale. Per esempio, giustamente Remotti aborrisce un uso razzistico della nozione di cultura, ma se gli si chiedesse perché, il relativismo che egli predilige non avrebbe risposte. Infatti, in un sistema relativista il razzismo dovrebbe trovar posto come il suo contrario. Solo una definizione metafisica di natura umana (l'essenza dell'uomo nel suo dinamismo) può dare fondamento agli stessi «diritti umani» che l'Onu nel 1948 non avrebbe potuto dichiarare «universali» se non presupponessero, appunto, una natura umana condivisa perché oggettiva, quindi metafisica, non limitata alle ricerche etnografiche e delle scienze sociali. Remotti attribuisce alla globalizzazione del capitalismo pesanti responsabilità in ordine all'impoverimento culturale: «Non è difficile riconoscere nei processi di "mercificazione" pressoché universale la grande forza "anti-culturale" del capitalismo, la sua capacità di ridurre a "merce" " a sola merce " ciò che in altri contesti è "simbolo", "valore", "cultura"». E perora «la necessità imprescindibile di "uscire", di saltar fuori, dalla logica o dallo spirito del capitalismo, allo scopo di inquadrarlo e soppesarlo nella sua enorme, e pressoché inedita, incidenza antropologica». Diagnosi forse troppo frettolosa e generalizzante, che difficilmente può trovare terapia in una rilettura (auspicata da Remotti) di Marx e di Engels. Invece è proprio dall'ammissione che la cultura è «una coperta troppo corta» per ricoprire la complessità del reale, che Remotti dovrebbe intuire l'inevitabilità di dare spazio alla domanda (metafisica) sul perché della complessità del reale e sul senso della presenza dell'uomo nel mondo. Ma, per concludere sul punto principale del rapporto natura/cultura, mi permetto di suggerire, a Remotti e ai lettori, un attento studio della dichiarazione della Commissione teologica internazionale «Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale», pubblicata il 10 giugno 2009.
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