venerdì 8 ottobre 2010
Non riesco tuttora a spiegarmi l'infatuazione redazionale degli amici del Foglio per La versione di Barney, di Mordecai Richler. Pubblicato da Adelphi nel 2005, il romanzo è oggi alla decima edizione (pp. 496, euro 12), e gran parte del merito (o della colpa) delle trecentomila copie vendute va proprio al Foglio che se ne è entusiasmato da subito, gli ha dedicato una rubrica quotidiana e non ha lesinato inserti fotografici, recensioni estasiate, aggiornamenti memorabili.
Diviso in tre parti, ciascuna intitolata alle tre mogli del protagonista, Barney Panofsky, il romanzo è programmaticamente divertente, «politicamente scorretto». Dovrebbe far sentire intelligente il lettore, ma personalmente mi deprime.
Non riesco ad appassionarmi alle imprese amatorie e alle bevute di Barney e dei suoi amici, e mi fanno schifo gli ubriachi che vanno a vomitare nella tazza del cesso. Barney è ebreo, e sembra divertirsi a ironizzare sui difetti degli ebrei che sente anche suoi, ma non ha torto chi trova nel romanzo qualche sgradevole sfumatura antisemita.
La scrittura è fatta di digressioni e di aneddoti anche divertenti, come la presa in giro dell'intellighenzia parigina degli anni '50, o della promiscuità della comune sessantottarda in cui per un periodo ha militato un figlio di Barney; il quale Barney, per cavarlo di prigione, ricorre anche alla raccomandazione di un vescovo che peraltro disprezza.
L'autodiagnosi di Barney è esatta: «Sto andando di nuovo fuori tema. Parlo di tutto, tranne di quello di cui dovrei. Ma questa è la vera storia della mia vita dissipata, che è fatta essenzialmente di oltraggi da vendicare e ferite da rimarginare». Un tipo così non mi diverte: propriamente mi fa pena. A volte si ride, ma come per una barzelletta scollacciata, e una barzelletta di 496 pagine è troppo lunga.
La ragione profonda viene a galla nel corso di una telefonata piuttosto esilarante della Seconda Signora Panofsky a sua madre (le altre due mogli hanno il nome, Clara e Miriam, ma la seconda è sempre citata così): «Un vecchio amico di Barney dei tempi di Parigi. Moscovitch, Bernard Moscovitch. No, non è canadese, è un vero scrittore». Mordecai Richler (1931-2001), infatti, è canadese ed è patetico il tentativo di Christian Rocca, nel saggio Sulle strade di Barney (Bompiani, pp. 208, euro 10,50), di smentire un fondato luogo comune: «Sembra che non esistano canadesi famosi, ma è vero il contrario», scrive Rocca e inanella due pagine di nomi di attori, registi, cantanti, sociologi canadesi.
Ma proprio l'elenco degli scrittori è il più gracile, a parte Saul Bellow (che si è trasferito a Chicago a 14 anni) e Alice Munro (che è stata consacrata dalle Università americane). Christian Rocca è andato sui luoghi di Richler per verificare quanto di sé lo scrittore abbia messo in Panofsky, ha intervistato la signora Florence Richler (che nel romanzo sarebbe Miriam, il grande amore di Barney), ha interpellato i loro cinque figli, è entrato nei bar frequentati da Barney-Richler, ha percorso le sue strade, ha visitato le sue case.
Il mito della dissacrante scorrettezza adorato da Rocca e dai foglianti viene inconsapevolmente infranto. Di Richler, infatti, vien fuori il ritratto quasi piccolo borghese di uno scrittore metodico e di buon senso, innamoratissimo della moglie (entrambi avevano, peraltro, un matrimonio fallito alle spalle) che tirava fuori qualche impertinenza per soddisfare il pubblico delle sue conferenze, e che, correttamente, derideva i tentativi separatisti del Québec. Trasgressivo in pagina, abbastanza conformista nella vita.
Meglio così, ma gli idoli non vanno mai osservati troppo da vicino. Doveva essere una celebrazione, un omaggio iperdevoto, quello di Christian Rocca: involontariamente, invece, finisce per dimostrare la fragilità strutturale della Versione di Barney, romanzo canadese che getta un'ombra di provincialismo sul suo trionfo italiano.
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