mercoledì 8 gennaio 2020
Roma, 48 d. C.: ai Senatori, che intendevano attribuire agli indigeni i seggi vacanti in una sorta di grido «Prima i Romani», l'imperatore Claudio in un esemplare e memorabile discorso ricorda che la potenza di Roma si è costruita sulla concessione della cittadinanza agli stranieri; che il padre Romolo, nell'intento di «mescolare sangue e stirpe» (sanguinem et genus miscere) ha accolto le popolazioni confinanti e nello stesso giorno trattava i nemici (hostes) come cittadini (cives); che Atene e Sparta rovinarono perché respinsero i vinti come "barbari". A questa inclusione politica, i Romani aggiunsero quella culturale, conquistando i nemici con le armi, ma facendosi conquistare dalle arti, come recita il celeberrimo verso oraziano «la Grecia conquistata conquistò il suo rude conquistatore» (Graecia capta ferum victorem cepit); e praticarono anche l'inclusione religiosa, costruendo un Pantheon multietnico nel quale trovavano posto divinità e culti dei vinti. Se noi oggi non intendiamo accogliere gli stranieri come fratelli, come detta sia il messaggio evangelico sia la ragione illuministica, facciamolo - come i Romani - per calcolo e lungimiranza politica. Come insegnano i versi di Kavafis (Aspettando i barbari): «S'è fatta notte, e i barbari non sono venuti / […] / E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente».
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