giovedì 21 dicembre 2023
L’altra notte, insonne, mi sono affacciata al balcone. Erano forse le tre. Ho sentito bruciare sulle guance un alito gelido, che tentava di insinuarsi dai vetri aperti nel tepore della casa. Non aveva fatto freddo finora a Milano, ma in quel momento ho fisicamente percepito il respiro dell’inverno - maestoso, nemico. Antico nemico - solo noi, nati in case riscaldate, lo abbiamo scordato. Ho richiuso la finestra. 17 dicembre, cinque giorni al solstizio d’inverno, l’ora più buia. Ho invidiato gli animali che vanno in letargo: stretti e rannicchiati nelle loro tane, immersi nel sonno. Saggi. Mi è parso davvero di essere sopraffatta dal buio. Da ragazza non facevo caso a questi giorni. Che quando l’ombra si avvicina si cerchi di allontanarla? Alle sette e mezza del mattino ho atteso con un’inconfessata ansia la luce. Tu pensa, mi sono detta, se un mattino il sole non sorgesse. Un dubbio così ascientifico, un sospetto così neanderthaliano.
Tuttavia, nel fondo nero delle notti di dicembre risento affiorare le paure dei cavernicoli, e comprendo gli antichi riti pagani, dai druidi ai greci, in quell’istante: quando il sole sembra sostare sul punto più basso dell’orizzonte ma si riprende, e torna a levarsi nella gloriosa corsa verso la primavera e l’estate. Sol invictus, dicevano i Romani. Gesù nasce poche ore più tardi: Cristo, luce che vince le morte. Quanto umana è, nel fondo dell’inverno, quando la natura pare ostile, l’attesa del momento in cui il sole riprende a salire.
Quanto profondo, che la nascita del Salvatore sia inscritta in questo bisogno primitivo, da popoli ingenui, ma vivi e amanti della vita. Da uomini che sanno leggere i segni. Come gli animali: i merli, che già nelle fredde notti di febbraio all’alba cominceranno a cantare, qui in cortile. Come le marmotte che lasciano le prime timide orme sulla neve molle, in montagna, a fine marzo. Il dubbio che questo ordine sovrano realmente stia venendo sovvertito, come ci viene assicurato, non mi convince, eppure impercettibilmente mi inquieta. Un sottile, indicibile spavento. Il solstizio d’inverno dell’anno 2023 comunque è fra poche ore, alle ore 4 e 9 minuti di stanotte, venerdì 22 dicembre, ora italiana. Dal 23, una manciata di secondi di luce in più, ogni giorno. Aspetto quest’alba come si attende il ritorno di qualcuno di caro. Il 23 comprerò un ciclamino rosa, sapete, quelli che hanno fiori come farfalle, e lo metterò sul balcone. In segno di gratitudine e di speranza. (A una certa età, la speranza diventa cosa rara). Quel ciclamino significa che sono contenta che la vita ricominci, che il sole sciolga il ghiaccio e i ruscelli in montagna riprendano a correre. Che i rondoni tornino ai nidi abbandonati sui rami spogli, e venga la stagione degli amori. Una volta ancora. Non so per quanti anni vedrò la primavera. Ma non importa: ormai ho accettato di essere di passaggio. Quand’ero ragazza, l’idea che il mondo sarebbe continuato senza di me mi era intollerabile. Adesso ne sono lieta. Fioriranno i rododendri in alta montagna, radiosi, a luglio, come quando li guardavo da bambina. Quanto desidero, adesso, che la misteriosa ruota del tempo si perpetui, per i figli dei miei figli. Soltanto quando l’ombra si fa prossima forse si capisce cos’è quell’attimo, a poche ore dal Natale, in cui il sole “sosta” (sol sistere, in latino). Si sente la gioia del vederlo tornare alto, splendente, avendo vinto il buio. In quell’istante c’è la fedeltà di Dio. È per stanotte: lo aspetto. © riproduzione riservata
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