martedì 13 marzo 2007
Forse non è a scuola che impariamo cosa sia la vita, ma lungo la strada che percorriamo per andare a scuola. Uno dei romanzi emblematici del Novecento e di un certo tipo di gioventù di allora è stato certamente Sulla strada (1957) di Jack Kerouac. Due ragazzi si mettono a girovagare per le distese immense degli Stati Uniti, senza una meta precisa, vivendo esperienze differenti, incrociando grandi città come San Francisco e Los Angeles ma anche aree senza presenze come nel Texas o in Messico. L'idea centrale è che la strada sia la vita vera e il nomadismo l'unica salvezza dalla grettezza e dall'egoismo borghese. Abbiamo sopra citato una frase che non è di questo romanzo ma ad esso si accosta: è dello scrittore tedesco Heinrich Böll (1917-1985), Nobel 1972, anch'egli incline alla denuncia del consumismo della società occidentale. In questa sua affermazione c'è una verità e una parzialità. La verità sta nel fatto che è necessario confrontarsi con la strada, cioè con la vita pulsante, il suo riso e le sue lacrime, il suo lavoro e le sue inerzie, le sue invocazioni e le sue bestemmie. Troppo spesso l'insegnamento scolastico e la stessa formazione religiosa pecca di astrattezza, di teoricità, di indeterminatezza. Bisogna uscire dal guscio protettivo e confrontarsi col mondo, coi suoi valori e i suoi scandali. Detto questo, però, ecco la parzialità del detto di Böll: quanti giovani si perdono proprio sulla strada e non solo con la droga ma anche col girare a vuoto, senza senso e meta. È, allora, necessario che ci sia un punto saldo che dichiari ciò che è bene e male, bello e brutto, vero e falso, giusto e iniquo.
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