mercoledì 1 aprile 2009
Autrice di romanzi meritatamente fortunati come La mennulara (2002), La zia marchesa (2004) e Boccamurata (2007), Simonetta Agnello Hornby con Vento scomposto (Feltrinelli, pp. 416, euro 19) abbandona la Sicilia favoleggiata e favolosa per affondare il bisturi in una piaga purulenta e dolorosa, di cui l'autrice è professionalmente edotta, essendo avvocato che dal 1972 esercita a Londra, oltre ad aver presieduto per otto anni il Tribunale di «Special Educational Needs and Disability».
Bisogna infatti sapere (e per chi non lo sapesse c'è la Nota introduttiva) che dal 1989 il Children's Act ha rivoluzionato il sistema legale inglese, ed è stato esportato in tutto il mondo. Lodevolmente inteso a tutelare i minori anche dagli abusi familiari, il Children's Act ha finito per favorire l'intrusione della burocrazia e dei servizi sociali nei delicatissimi rapporti tra genitori e figli, spesso col protagonismo di psicologi, sociologi, assistenti sociali incompetenti, presuntuosi e devastanti.
Il romanzo (ma non si fa fatica a riconoscere che le storie, sia pure rielaborate con nomi fittizi, sono proprio vere), racconta le peripezie della famiglia Pitt. Mike è un manager ricco e rampante, marito di Jenny e padre di due bimbe Amy e Lucy. La maestra d'asilo di Lucy è inconsciamente gelosa di Jenny, perché è troppo elegante e non interviene alle riunioni dei genitori; inoltre, secondo la maestra, i ricchi non si prendono mai cura dei figli. Da certi disegni di Lucy la maestra si convince che la bimba è stata abusata dal padre, e allarma i servizi sociali. Si innesca un meccanismo stritolante che squassa la famiglia, coinvolge avvocati, psicologi e giudici, fino all'happy end intuibile fin dall'inizio, ma che il lettore per tutte le 400 pagine del libro si domanda come farà a venir fuori, tanto intricato, imprevedibile, angosciante è il percorso che l'autrice analizza con stile lucidamente impietoso.
Qui ci limitiamo a due annotazioni. La prima riguarda il rapporto tra professionalità e relazioni umane. Nell'avvocato Booth, per esempio, colpisce l'impeccabile caparbietà con cui difende Mike Pitt senza fidarsi né del proprio cliente né dei servizi sociali, né della psicologa, né dei giudici. Si assiste a una specie di gioco di ruolo, in cui ciascuno svolge la propria parte, senza mai incontrare veramente nessuno degli altri. E ogni «attante» (portatore di una funzione nel racconto) cerca di tenere a bada, attraverso la professionalità, il proprio vissuto, riuscendoci un po' sì e un po' no.
Il secondo aspetto concerne il nesso tra legalità e moralità. Tutta quella lotta a colpi di perizie e di atti giudiziari, presuppone una norma etica che, propriamente, è naturale: amore coniugale, amore ricambiato tra genitori e figli, lealtà, sincerità, disponibilità ad aiutare il prossimo, eccetera. Ma, in assenza di un riferimento trascendente, tutto appare instabile perché infondato. E quindi Mike (vittima non simpatica, per la prepotenza che gli viene dal denaro), pur avendo come unico obiettivo di riconquistare l'amore della moglie e la possibilità di amare senza sospetti le sue bambine, si concede sporadiche evasioni consolatorie; e la simpatica Pat, nuova segretaria dell'avvocato Booth, così sollecita e di buon cuore, convive con un divorziato che non ha intenzione di sposare e che peraltro si rivelerà determinante nello scioglimento dell'intrigo (ma è noioso, purtroppo per lui). E così avviene in quasi tutti gli altri personaggi che perseguono una sorta di moralità (anche negli affari) avulsa dalla coerenza e, quindi, utopicamente falsa. In questo senso il romanzo è specchio fedele del degrado e dell'infelicità del mondo senza Dio in cui viviamo, soprattutto se analizzato attraverso la clientela dolente che si avvicenda nell'anticamera dell'avvocato Booth: pedofili, madri analfabete abbandonate dal marito, ragazzine curde abusate dai fratelli... Tutto questo è narrato in un libro terribile come la realtà e che, come la realtà, chiede l'interpretazione del lettore.
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