Accanto agli afghani nell'esodo e oltre
mercoledì 1 settembre 2021
Nell'ultima settimana uno di quegli imponderabili casi che qualche volta attraversano le nostre vite, ha fatto sì che dedicassi tutto il mio tempo, letteralmente giorno e notte, per aiutare alcune ragazze, calciatrici della squadra femminile di Herat in Afghanistan, un gruppo di cicliste e tanti altri esseri umani fino al loro arrivo all'aeroporto di Kabul. Ieri è stato l'ultimo giorno della presenza militare americana in Afghanistan e nell'ultima settimana si giocavano le speranze residue, per migliaia di persone in pericolo di vita, di lasciare il Paese per via aerea. I nostri Carabinieri del "Tuscania" sono stati lì, fino all'ultimo minuto possibile, a rischiare la vita per portare fuori persone che la loro vita l'avrebbero persa a causa del ritorno dei taleban al potere. Entrare in contatto costante con gente terrorizzata e in fuga, triangolare informazioni con loro e con i nostri militari laggiù, è stata una delle esperienze più incredibili della mia vita. Un film, si direbbe. Invece era una concretissima realtà, una partita in cui in palio c'era la vita, da affrontare con il gioco di una squadra composta da persone che mai si erano viste e conosciute prima. Nell'operazione in cui sono stato coinvolto più di sessanta persone sono state portate al sicuro dai nostri militari attraverso Abbey Gate, proprio il luogo esatto dell'attentato. Non credo riuscirò mai a descrivere bene quelle ore che sono state fra le più incredibili della mia vita. Gli ultimi ingressi attraverso Abbey Gate sono stati intorno alle h. 13:30 italiane del 26 agosto. Quattro ore prima dell'attentato, quella carneficina le cui proporzioni probabilmente non saranno mai chiare, esattamente lì, dove quel gruppo aveva sostato per dodici ore prima di essere portato in salvo. La tragedia, la felicità. La gioia, la disperazione. I sommersi e i salvati. Non mi era mai capitato di esserci dentro così, in una situazione dove un punto giusto trovato su una mappa digitale o no, un messaggio letto o no, un telefonino acceso o no, una scelta fatta o no, avrebbe potuto fare la differenza più estrema. Forse un giorno scriverò di più, non ora. Ora voglio solo pensare alle persone portate in Italia, al loro futuro. E all'enorme e struggente numero di persone che è rimasta fuori, alcune macellate dalla pazzia criminale, altre la cui agonia non conosceremo neppure. Tre calciatrici del club di Herat, il loro allenatore, sei cicliste della squadra nazionale afgana, molte loro famiglie e tantissime altre persone, magari con una luce mediatica un po' meno accesa su di loro, sono oggi in Italia, al sicuro, a trascorrere il periodo di quarantena. Adesso, dopo la fase terrificante dell'esodo, inizia quella della solidarietà. Adesso dobbiamo prenderci cura di chi è arrivato fra noi, continua a ringraziare in maniera commovente il nostro Paese e le organizzazioni che qui le hanno portate: le nostre istituzioni, prima fra tutte il Ministero della Difesa, i nostri militari, le organizzazioni che come Cospe Onlus e Road to Equality hanno permesso che tutto questo succedesse. Adesso dobbiamo dimostrare di essere un grande Paese, capace di accogliere e di includere. Sarà un'altra partita, bellissima e importantissima da giocare. Non spegniamo la luce.
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