mercoledì 18 aprile 2012
Su Avvenire di mercoledì 11 aprile, nella rubrica di Cesare Cavalleri, è apparsa una recensione a un volume di Daria Menicanti da me curato, La vita è un dito. Tutte le poesie, edito in febbraio da Giuliano Ladolfi Editore. Faccio alcune considerazioni su quanto ho letto, soprattutto dacché ritengo doveroso fare il punto in merito a ciò che, pretestuosamente, ha scritto il recensore. Legittime – dacché personali, per quanto non chiaramente motivate – sono le osservazioni sul titolo del volume (attingente, ancor prima che a testi della Menicanti, ad Alceo) e sul carattere utilizzato per l'edizione; pretestuose, dacché frutto di una lettura abborracciata e priva di approfondimento, oltre che, visibilmente, non serena, ritengo siano le osservazioni (facenti leva, in parte, tacitamente, a dati attinti ai contributi da me curati interni al volume) che riguardano i rapporti tra Daria Menicanti e Antonia Pozzi. Se il recensore – cui pure, cordialmente, va tutta la mia stima – avesse avuto la accortezza di leggere, da cima a fondo, con occhio sereno, il mio studio introduttivo e i due saggi a mia firma posti nell'appendice critica al volume, avrebbe avuto modo di appurare quali siano le mie effettive posizioni critiche (non dissimili, peraltro, dalle sue) in merito alla significativa distanza ideologica tra la Menicanti e la Pozzi, pur nel comune ceppo formativo attinto al magistero e alla riflessione teoretica di Antonio Banfi. Posizioni ben differenti (a una lettura, ripeto, accorta e serena, ideologicamente priva di pregiudizio critico) da quelle che, nella recensione di Cavalleri, mi sono attribuite. Cito ora, per offrire la cifra critica delle mie affermazioni sui rapporti tra la Menicanti e la Pozzi, alcuni passi dei contributi da me compilati interni al volume: «E il retaggio banfiano si fa sentire, in poesia: più assimilativo, per quanto tardivamente espresso, forse, nella Menicanti, rispetto alla accurata metabolizzazione che, degli insegnamenti di Banfi, ha fatto Sereni, levigandoli fino all'iridescenza, o alla tesa sperimentalità (su un piano soprattutto speculativo, più che squisitamente poietico) della poesia di Antonia Pozzi» (dall'introduzione, pp. 10-11). «Si assiste peraltro, alla luce soprattutto della strutturale ironia interna alla parola poetica della Menicanti, a una non esigua distanza ideologica tra quest'ultima e Antonia Pozzi, se per Daria la poesia è, soprattutto, "attesa" che s'avanzi una "banda di rime" (biòs poietikòs), "attesa" che tuttavia non deroga rispetto alla (sottilmente disperante) consapevolezza della propria epifanica eccezionalità – compiuta entro il quadro della ferialità esistenziale del poeta, quasi a costituirne il singolare maraviglioso –, laddove in Antonia alla progressiva epifania delle "rime" si oppone il transito apocalittico, rivelatorio delle parole (La porta che si chiude […]), la sacrale sottomissione al vaglio esistenziale da parte della parola poetica (Preghiera alla poesia […])» (dall'introduzione, pp. 14-15).Matteo M. VecchioLa mia risposta è sobria. Se si ragiona di letteratura bisogna farlo sui testi e, come ho scritto, i testi di Antonia Pozzi e di Daria Menicanti sono inconfrontabili perché Antonia si è uccisa nel 1938, mentre i primi testi noti della Daria (a parte nove scritti giovanili non particolarmente significativi) sono del 1959. Quindi il confronto, anche per valutare l'eredità banfiana, non regge. Il curatore concorda con me sulla diversità fra le due poetesse: ma allora, perché insistere nei paragoni? Mi sembra un uso improprio della dialettica, che ricorda le pseudoetimologie «lucus a non lucendo», «canis a non canendo», proverbiali esempi di ipotesi insensate. Ribadisco dunque quanto ho scritto la settimana scorsa, confermando la gratitudine verso il curatore e, soprattutto, verso l'editore, che hanno acceso un riflettore su una poetessa che ho conosciuto e di cui conservo alcune lettere simpatiche.Cesare Cavalleri
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