mercoledì 14 dicembre 2011
Alberto Vacca si è preso la briga di scartabellare nell'Archivio di Stato i rapporti dei Prefetti in merito alle accuse di offesa al capo dello Stato dal 1930 al 1945, cioè le denunce per insulti, barzellette, caricature contro Mussolini. Ne è venuto il volume Duce truce (Castelvecchi, pp. 320, euro 18) che vorrebbe dare un'idea dell'opposizione antifascista a livello popolare. Il reato di offesa al Duce era disciplinato dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (1931) e prevedeva il confino, l'ammonizione e la diffida. Il confino imponeva al condannato di risiedere in un Comune diverso da quello abituale, con una serie di limitazioni alla libertà di circolazione; l'ammonito subiva restrizioni senza dover cambiare residenza e per un massimo di due anni; la diffida era un'intimazione verbale di non occuparsi di politica e di non esprimere opinioni contrarie al regime. Nei casi più gravi l'offensore era deferito alla magistratura, non prima, però, del nulla osta concesso dal ministero dell'Interno, che raramente veniva accordato. Il Duce che, a quanto pare, esaminava personalmente i verbali delle forze dell'ordine che lo riguardavano, preferiva infatti la procedura più spiccia del confino, dell'ammonizione o della diffida, anziché le lungaggini della magistratura. Nel periodo 1926-1943 i denunciati per offese al capo del Governo furono circa cinquemila: 1700 furono assegnati al confino, circa 300 furono condannati alla reclusione, e i restanti vennero ammoniti o diffidati. Non sono numeri vertiginosi, spalmati in 17 anni, anche se le restrizioni alla libertà di opinione sono sempre gravi, indipendentemente dai numeri. Nel caso, tuttavia, non si tratta di opinioni propriamente politiche, bensì di insulti, oltraggi, irrisioni, prevalentemente a sfondo osceno o scatologico, raccolti nelle osterie o casualmente per strada, da parte soprattutto di ubriachi, minorati psichici o persone adirate, che spesso ritrattavano o davano un'interpretazione benevola dei loro sfoghi. Qui non possiamo, per decenza, trascrivere qualcuna di queste invettive, e il lato più odioso della faccenda sta semmai nell'incoraggiamento alla delazione da parte di chi, magari casualmente, aveva assistito a tali possibili «reati». L'aspetto più comico sta nel burocratese dei verbali di polizia, nei quali vengono compuntamente riprodotti i termini anatomici usati dai denunciati, nella letteralità delle loro espressioni da censurare. E non di rado, tra le righe, si coglie una certa bonomia nel concedere attenuanti per lo stato di ubriachezza o per la minore età dei contravventori. Tutto sommato, un libro inutile, per la scarsa rappresentatività del campione statistico rispetto ai milioni di cittadini regolarmente iscritti al Fascio e che a migliaia affollavano i comizi del Duce. L'antifascismo da osteria non era il più nobile né il più efficace dei sentimenti. La ricerca di Alberto Vacca, tuttavia, offre lo spunto per una considerazione in un certo senso opposta. A prescindere dal Duce (e anche da Berlusconi), sarebbe auspicabile un po' più di rispetto per chi è titolare delle istituzioni democratiche, capo dello Stato o del governo, magistrati, parlamentari. Nel 1959 Tognazzi e Vianello furono allontanati dalla Rai per una blanda parodia del presidente Gronchi. Misura certamente eccessiva e auspicabilmente da non ripetere. Ma non ci si deve meravigliare del discredito delle istituzioni se l'opinione pubblica è continuamente sollecitata da sketch televisivi o radiofonici, da vignette e barzellette, a schernire coloro che, comunque, ci rappresentano.
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