Néné, via dal suo Congo-Rdc, pacificato solo sulla carta
di Anna Pozzi
L'avvocata, presidente di una delle più attive organizzazioni di difesa dei diritti umani nel Paese, non riesce a rientrare nonostante due accordi firmati a Washington e Doha. Ma non si è spenta la sua determinazione nel denunciare i terribili crimini che continuano a essere commessi nella sua terra

Néné Bintu a Uvira ci entrava clandestinamente. Anche se quella è la sua terra, il suo Paese. Ma, come molti altri, è stata costretta a lasciare l’Est della Repubblica Democratica del Congo che, nonostante due accordi di pace firmati a Washington e Doha, è più che mai sfigurato dalla guerra. Néné Bintu è una coraggiosa avvocata, presidente del Coordinamento della società civile del Sud Kivu, una delle più antiche e attive organizzazioni di difesa dei diritti umani che raduna circa duecento associazioni e Chiese, tra cui quella cattolica, molto presente nel sostenere la popolazione duramente provata. Da quando lo scorso anno il Movimento M23, sostenuto dal Ruanda, ha occupato prima Goma, capoluogo del Nord Kivu, e poi gran parte del Sud Kivu, Bintu è stata costretta a fuggire in Burundi, ma di tanto in tanto riusciva a fare qualche “incursione” a Uvira, che si trova poco al di là del confine, per poter incontrare i suoi collaboratori e continuare il lavoro capillare di monitoraggio di massacri, violenze, stupri, abusi che continuano a essere commessi in questa regione ricchissima di materie prime e devastata da una guerra trentennale. Lo scorso 9 dicembre, però, la città è stata presa dalle forze dell’Alleanza Fiume Congo/Movimento M23 (Afc/M23), quasi a farsi beffa dell’accordo di pace firmato pochi giorni prima, il 4 dicembre a Washington, dal presidente congolese Felix Tshisekedi e da quello ruandese Paul Kagame, con la mediazione di Donald Trump.
Per Néné Bintu si è chiuso nel peggiore dei modi anche l’ultimo spiraglio di poter mettere piede nel suo Paese. Ma non per questo si è spenta la sua determinazione nel portare avanti il lavoro di monitoraggio e denuncia dei terribili crimini che continuano a essere commessi nella sua terra: «La gente continua a essere massacrata e perseguitata. Riceviamo continuamente denunce di abusi. Per questo, non possiamo rimanere in silenzio». Per continuare a far sentire la sua voce e quella dell’organizzazione che presiede, si appoggia molto al personale e alle strutture della Chiesa e dei missionari, che nell’Est del Congo sono spesso l’unico punto di riferimento per una popolazione completamente abbandonata a se stessa.
Monsignor François Xavier Maroy, vescovo di Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, è uno di quelli che non cessa di stigmatizzare le gravi responsabilità che stanno dietro a violenze e massacri e a chiedere «decisioni utili per fermare la guerra anziché prolungare l’agonia della popolazione. In questo contesto – dice – la Chiesa non è chiamata a ritirarsi, a rimanere in silenzio, ma a testimoniare con coraggio». A Goma, il vescovo Willy Ngumbi Ngengele ha insistito in più occasioni sulla necessità di «rispettare assolutamente la vita umana e il diritto internazionale». Intanto, sul terreno c’è chi, come i salesiani, continua tenacemente a portare avanti le attività con bambini e ragazzi, molti dei quali sono sfollati: «Quando l’M23 ha conquistato la città – racconta padre Aimé Lulinda – decine di migliaia di persone che si erano accampati sui nostri terreni sono fuggite in foresta, ma altrettante si sono riversati qui da altri villaggi. La situazione è drammatica, anche perché l’economia è bloccata e le scuole sono in parte chiuse. Ragazzi allo sbando assaltano e saccheggiano case e negozietti, rubando il poco che le famiglie hanno. Ma non sono loro i veri ladri…». I veri ladri sono coloro che continuano a destabilizzare queste regioni per rubarne impunemente le ingenti materie prime. Alla faccia degli accordi di pace che rischiano di essere solo carta straccia.
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