Al bar ristorante di Harper si entra senza smartphone
Ha scoperto il talento per la cucina grazie alla mamma e alla nonna, il suo "Hush Harbour" a Washington D.C. è uno spazio per “connettersi” tra esseri umani

Rahman “Rock” Harper ha imparato presto che cucinare non è solo mettere insieme ingredienti: è soprattutto prendersi cura degli altri. Nella sua storia, che parte dalla periferia di Washington, D.C. e arriva ai riflettori televisivi, infatti, il filo rosso della creazione culinaria si intreccia inestricabilmente a quello del servizio. «Essere utile alla mia famiglia e alla mia comunità è ciò che ha sempre spinto tutto il resto», dice. È una frase che spiega perché oggi il 48enne Harper sia considerato non soltanto uno chef di spicco, ma anche un punto di riferimento sociale per la comunità afroamericana nell’area tra la capitale Usa, il Maryland e la Virginia. Le sue radici sono domestiche e femminili. La nonna Esther Harris e la madre Carole gli hanno mostrato fin da piccolo «il potere della cucina e tutto ciò che si può fare con amore e cibo». In casa Harper non c’erano certo i soldi per il filet mignon, ma ogni pasto univa tre generazioni attorno al tavolo e alla stessa cultura. L’idea di diventare cuoco per Harper nasce in terza media, quando Rock prepara delle lasagne per l’esame di economia domestica e scopre non solo di saper cucinare bene, ma anche che quel talento può generare valore, persino un lavoro. La conferma arriva alle superiori, quando l’insegnante di cucina lo incoraggia a trasformare l’amore per i fornelli in una carriera.
Dopo 15 anni di gavetta nelle cucine della Virginia, la svolta arriva nel 2007, quando vince la terza stagione della trasmissione Hell’s Kitchen. È un traguardo che gli apre porte, viaggi, opportunità imprenditoriali e che gli permette di fondare RockSolid Creative Food, un’azienda ma anche un’associazione per sostenere la comunità dei cuochi, che si è rivelata provvidenziale durante la pandemia. In pieno lockdown, quando il settore era in ginocchio, Harper ha lanciato una serie di gruppi sui social per diffondere risorse e informazioni a chi aveva perso il lavoro. E ha fatto da ponte verso gli aiuti economici, aiutando piccoli imprenditori a ottenere prestiti e a ristrutturare le proprie attività. «Mi sono accorto che con i miei contatti e la mia esperienza potevo essere un facilitatore – spiega – e ho fatto tutto quello che potevo, perché so che la dignità di un quartiere passa anche da un ristorante che non chiude».
Molto di quel lavoro è avvenuto in modo informale, spesso sulle poltrone dell’Ultimate Styles Barber Shop, il barbiere che frequenta da vent’anni. È la stessa atmosfera che cerca di ricreare nei suoi locali, dove negli ultimi anni Harper ha lanciato un’altra battaglia, quella contro i cellulari. Se infatti da giovane imprenditore viveva con due telefoni, un Blackberry e un flip phone, come simboli della sua attività febbrile, oggi confessa di aver rivalutato il rapporto «con i dispositivi elettronici e con le loro continue richieste di attenzione». Da questa missione è nato Hush Harbor, il nuovo bar-ristorante che ha appena aperto, dove i cellulari sono vietati. Ogni telefonino finisce in una custodia all’entrata, come in molte scuole. «L’idea è nata da una nostalgia per gli anni Novanta, quando durate una serata fuori bisognava ascoltare davvero, rispondere dal vivo alle chiamate della band, memorizzare un numero di telefono e aspettare di tornare a casa per chiamare – ammette –. Conosco la magia di essere presenti. Voglio ritrovarla per me e per gli altri». Harper aveva già sperimentato serate “senza telefono” nel suo ristorante di Hill Prince ed erano state tutte esaurite, facendogli capire che non era un capriccio, ma un bisogno diffuso. Hush Harbor, che richiama nel nome i luoghi protetti in cui gli afroamericani si ritrovavano per pregare lontano da occhi ostili, è pensato come un rifugio. Nessuna insegna fuori dalla porta, luci calde, libri sugli scaffali, tappeti, quadri: un ambiente che invita a guardarsi in faccia. Qualcuno lo trova pretenzioso, altri temono di non essere reperibili, ma Harper è convito di essere sulla buona strada. «Non punto a lanciare una nuova moda –. Ma scommetto sul fatto che gli esseri umani cercano uno spazio in cui connettersi con altri esseri umani».
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