Cercavo di capire, provavo a mettere ordine tra i dettagli. Non mi capacitavo, in particolare, di come il signor Kenobi avesse forgiato il suo italiano, elaborato e meccanico nello stesso tempo. Magari la combinazione derivava dal miscuglio di lingue che aveva respirato in casa. L’ipotesi non era da scartare, ma rimaneva indimostrabile, perché nulla o quasi mi era noto della sua infanzia e della sua famiglia. Tutto considerato, era più plausibile che il suo modo di parlare facesse parte della montatura allestita per ingannarmi o forse – ancora non volevo arrendermi – per proteggermi. Se davvero il signor Kenobi aveva forgiato da sé quella lingua meticolosa, c’era da riconoscergli non solo l’estro dell’inventore, ma anche la perseveranza dell’artista.
Con il passare del tempo ho sviluppato una deprecabile ammirazione per gli impostori, capaci di mantenere le apparenze di un’identità fittizia a dispetto delle circostanze. Bene o male, tutti recitiamo una parte nel mondo. Questo lo sapeva già Shakespeare, meglio di lui lo sapeva Calderón de la Barca. Di solito lo facciamo perché si deve, perché ci adeguiamo alle regole stabilite da altri. Il signor Kenobi aveva scritto da sé il proprio copione. Andava in scena come tutti, ma interpretava il ruolo per il quale si preparava da sempre.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


