Di troppa crescita si muore
Dal Nobel 2025 alla parabola del ricco epulone: senza “buona innovazione” e una ricchezza capace di farsi dono, la crescita economica genera disvalore invece che vita

L’innovazione non è un fenomeno moderno. Nasce con l’Uomo. Progredisce con l’Uomo. Il recente Nobel per l’Economia 2025 svela e formalizza, dunque, un arcano antropologico e sociologico che accompagna l’umanità fin dalle sue origini. Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt sono stati premiati per aver dimostrato che la crescita economica scaturisce dall’innovazione: dall’invenzione che si accumula, dal sapere che si rinnova, dall’intelligenza collettiva che si trasmette. Una tesi affascinante, elegante, potente. Eppure, parziale dal punto di vista dell’innovazione armonica. Perché, è vero: l’evoluzione è stata continua. Ma, dobbiamo ammettere, che non sempre è stata buona. E senza buona innovazione non può esserci buona crescita. Ogni innovazione, come un demiurgo distratto, ha dilatato il perimetro del possibile. Troppo spesso, però, ignorando (colpevolmente) l’orizzonte del giusto. Ciò ha prodotto disvalore: morale, sociale, strategico. E, soprattutto, economico.
Non è casuale che l’ONU abbia di recente istituito il Gruppo di alto livello indipendente incaricato di elaborare nuovi sistemi di valutazione del benessere oltre il Pil, di cui è autorevole membro il caro Enrico Giovannini che potrà, così, dare compimento al lavoro di una vita, già avviato in OCSE con il Better Life Index. Ma c’è di più (e dell’inatteso). Perfino la Cina – il più grande laboratorio di crescita quantitativa della storia umana, la potenza che ha fondato più di ogni altra la propria legittimità politica sull’accumulo di riserve economiche – ha recentemente annunciato una svolta epocale, ad esito del Quarto Plenum che ha approvato il Quindicesimo Piano Quinquennale (2026-2030): la crescita economica non è più la priorità assoluta dello Stato; ora ciò che conta è il consolidamento della rilevanza strategica. Un messaggio che ha stupito l’Occidente, perché giunge dal Paese che ha trasformato l’espansione economica in religione civile e disciplina collettiva. Eppure, proprio (e finanche) la Cina ci indica ciò che nessuna retorica occidentale osa ammettere: le società che non ripensano il proprio modello di sviluppo e le proprie priorità, sono destinate a implodere. Ciò conferma che la crescita illimitata non è un destino ineluttabile, ma una narrativa ideologica da cui possiamo e dobbiamo affrancarci. «Chi crede che la crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle o un economista» ammoniva Kenneth Boulding. La crescita a tutti i costi, la crescita non buona, non rafforza le civiltà. Le distrugge. Di troppa crescita (e di crescita non buona) si muore.
Con umiltà, osiamo affermare, dunque, che la ricerca premiata con il Nobel andrebbe ampliata. Occorrerebbe misurare con rigore gli impatti negativi dell’innovazione non buona, calcolando i differenziali tra il valore creato e quello distrutto. Nel passato, nel presente e per il futuro. Aggiungendo, poi, un corollario necessario alle conclusioni dei Premi Nobel: la crescita non dipende da una qualunque innovazione, ma soltanto dall’innovazione buona. Il punto della questione non è quanto (o come) si cresce. Bensì il tipo di crescita (e di innovazione) che vogliamo attuare. E la ricchezza che desideriamo far germinare.
E qui giungiamo ad alcune domande cruciali. Cos’è la ricchezza? Cos’è la povertà? Chi è il ricco? Chi è il povero? Le figure evangeliche del ricco epulone e del povero Lazzaro, ci aiutano a rispondere. Il primo è ricco di averi, ma povero di eternità. Il secondo è povero di beni, ma ricco di eternità. La ricchezza del primo uccide. La povertà del secondo fa vivere. La prospettiva evangelica sovverte le nostre convinzioni abituali. E ci introduce a una metodologia apparentemente eretica e politicamente scorretta. Proviamo a sintetizzarla. Il ricco epulone è chiamato a vivere da povero la propria ricchezza. Il povero Lazzaro è chiamato a vivere da ricco la propria povertà. Il ricco epulone è chiamato a santificare la propria ricchezza. Il povero Lazzaro è chiamato a santificare la propria povertà. Entrambi sono chiamati a vivere, ciascuno, la propria condizione. Nulla di più, nulla di meno. Ciò significa che non bisogna occuparsi dei poveri? Certamente no. Se il ricco santificasse (veramente) la propria ricchezza, la povertà – e i poveri stessi – non esisterebbero. Siamo chiamati a ricomporre le fratture e le ingiustizie, all’origine. Nel messaggio evangelico si nasconde una sapienza perfetta che risolve ogni apparente contraddizione. Questa visione corregge alla sorgente ogni sociologia di ieri, di oggi e di domani. Perché rimette al centro il primato del bene escatologico sul bene storico, del benessere spirituale sul benessere materiale. Se al ricco epulone è dovuto un gesto di amore perché diventi ricco per l’eternità, questo gesto deve essere compiuto. Se, invece, il povero Lazzaro attraverso la propria povertà potrà diventare ricco per l’eternità, egli va aiutato a vivere la sua condizione di povero. L’amore, il vero amore, non è mai scontato né fine a sé stesso. L’amore, il vero amore, è sempre operato in vista della missione peculiare, della salvezza necessaria e del più grande bene di ogni persona. C’è spazio per questa visione nella nostra società?
Qualche anno addietro, il mio Padre Spirituale ebbe a dirmi: «Questa scienza si apprende e si vive solo frequentando costantemente la biblioteca custodita nel cuore dello Spirito Santo. Solo per Suo purissimo dono». Questa scienza non si impara sui manuali di economia, di sociologia, di antropologia e, nemmeno, di teologia. Questa scienza è oltre ogni scienza. Questa scienza è la scienza che fa vivere ogni altra scienza. Questa scienza è necessariamente soteriologica e pneumologica. Questa scienza è scandalo per le convenzioni umane. Questa scienza non si afferra una volta per sempre. Questa scienza si conosce momento per momento, attimo per attimo, circostanza per circostanza. Questa scienza è mozione interiore. Questa scienza è l’unica vera scienza della carità: aiutare l’altro – con parole e opere – a raggiungere il fine ultimo (e costitutivo) che è proprio della particolare verità di ogni persona. Questo vale per ogni Uomo. Ma vale, anche, per l’Umanità intera.
Ciò non significa ignorare i bisogni materiali. Quanto, piuttosto, armonizzarli in una visione più alta e più sacra. C’è chi spreca un’intera vita specializzandosi nella capacità di accumulare e consumare valore. C’è chi, invece, dona la propria vita per creare e custodire valore. «Bona exteriora non constituunt beatitudinem» ci ricorda il Doctor Angelicus evidenziando che i beni esteriori servono alla vita ma non sono la vita. Nonchè riecheggiando ciò che anche Aristotele anticipò nell’Etica Nicomachea: «La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto "utile", cioè in funzione di altro». Ma è il Vangelo che ci offre la prospettiva più alta: «Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?», ci ricorda Matteo. E poi ancora: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12, 15). Non lo dicono solo i Vangeli. Lo affermano le scienze economiche, la filosofia morale, l’antropologia culturale. «La bontà pura consiste nel dare senza possedere», scriveva Simone Weil, ricordandoci che la vera ricchezza è solo quella che può essere donata.
È un processo reale. Ma è anche, e soprattutto, un processo morale (e ascetico). Perché l’innovazione (come l’economia) o si riscopre scienza morale o non è. Non basta crescere. Occorre ascendere. E trascendere. Occorre amare. E lasciarsi amare. Di un Amore vero.
Ogni buon Armonauta lo sa, lo vive e lo testimonia.
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