L’universalismo amorfo: quando l’inclusione cancella le differenze
Tutti sono accolti, ma nessuno è veramente riconosciuto.

L’epoca moderna ha cercato con grande tenacia un alfabeto comune della convivenza, un sistema universale di principi, valori e idee capace di garantire pace, diritti e concordia tra individui e popoli. Dall’Illuminismo in poi, il sogno di una ragione condivisa ha generato dichiarazioni, carte, costituzioni, cataloghi di diritti pensati come patrimonio universale dell’umanità. Tuttavia, la Storia testimonia che questo sforzo non ha sempre generato i frutti attesi. Anzi, c’è di più. Molte volte, l’ambizione di definire una visione universalmente unificante del modello di società, ha finito per generare, da un lato, dogmatismi, totalitarismi e integralismi; dall’altro, relativismi, anarchismi e nichilismi. Anche oggi questo progetto, nato per proteggere la dignità di ogni persona umana, si trova esposto a contraddizioni profonde. Mentre invoca l’inclusione, finisce spesso per cancellare le differenze. Mentre proclama il valore della pluralità, omogeneizza tutto al mainstream, alimentando il mito dell’indeterminatezza e della neutralizzazione delle identità. Fino a dissolvere gli archetipi insidiando e compromettendo la radice simbolica del genere, della memoria, della tradizione.
La crisi attuale può essere letta come una tensione mal composta tra la dimensione individuale e quella collettiva della persona umana. In questa cornice, la soggettività assume un primato assoluto. Non è più l’io a confrontarsi con un reale – e con un trascendente metafisico – che lo precede. È il reale a dover continuamente adattarsi all’io. La persona viene pensata come pura auto-progettazione. Come identità che si costruisce e decostruisce senza limiti. Al tempo stesso, il collettivo – Stato, mercato, sistemi mediatici – tende a uniformare gusti, linguaggi, orizzonti simbolici, producendo un “noi” indistinto. È la morte della comunità. È il trionfo dell’aggregato. Ne risulta una strana combinazione: individui ipercentrati su sé stessi, ma al tempo stesso facilmente omologabili; esistenze formalmente libere, ma sostanzialmente allineate a un codice culturale dominante. L’accelerazione tecnologica, la digitalizzazione dell’esistenza e l’artificializzazione della società, sono al servizio di questo disegno. Nel segno del tecno-ottimismo. E delle ambizioni egemoniche di una ristretta super tecno-plutocrazia.
È paradossale – o forse inevitabile – che questo approdo sia frutto del progressivo cammino dell’universalismo moderno. L’Illuminismo (e ciò che ne è derivato, direttamente o indirettamente) insieme ad altre correnti culturali e filosofiche, ha scommesso sulla possibilità di trovare principi razionali condivisibili da ogni essere umano in quanto tale. Al di là delle appartenenze religiose, etniche, culturali. Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo, Costituzioni democratiche, Organismi sovranazionali hanno rappresentato i tentativi storici di tradurre questa aspirazione in istituzioni capaci di contenere i conflitti e garantire una base minima di giustizia. L’idea di fondo è sempre stata chiara: se esiste un nucleo di diritti e di valori riconoscibili da tutti, la convivenza non dovrà più fondarsi sulla forza, ma sul consenso e sull’adesione.
Eppure, oggi, tre membri su cinque del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti d’America, Russia e Cina) non aderiscono né alla Corte Internazionale di Giustizia né alla Corte Penale Internazionale. Finanche il diritto, dunque, non è universalmente accettato prevalendo su di esso la legge del desiderio individuale. Ma, più in profondità, è l’intero sistema universale di principi consolidatosi nel tempo, a essere progressivamente entrato in tensione con sé stesso. Da un lato, chiede inclusione, riconoscimento delle differenze, tutela delle minoranze; dall’altro, nella sua versione più radicale, tende a percepire ogni contenuto forte di identità come potenziale minaccia all’uguaglianza. Così, sotto il segno del “non discriminare”, si finisce per delegittimare ciò che distingue e rende autentici. Sotto il segno dell’universalità, si combatte ogni particolarità. Sotto il segno del rispetto, si censurano la memoria, i simboli, il linguaggio. Come se la sola via alla pace e alla concordia fosse la rimozione delle differenze storiche e simboliche. L’universalismo, nato per proteggere l’Uomo concreto, finisce quindi per chiedere all’Uomo concreto di diventare neutro, indeterminato, intercambiabile. Non concreto. Non Uomo.
In questa scia, emerge e si consolida sempre di più, fino a diventare tratto caratteristico della contemporaneità, l’idea di un “universalismo amorfo”. Ovvero, una forma di universalismo che non si limita a riconoscere ciò che, nella diversità delle culture, può dirsi autenticamente umano, ma tende a dissolvere proprio quella diversità che dovrebbe valorizzare. Tutto è in tutti e tutti sono nel tutto. Ma poiché il tutto in cui sono tutti è fluido e relativo, tutti diventano – inevitabilmente – fluidi e relativi. Compresa la Storia. Compresa la Verità. La distinzione tra identità, appartenenza, ministerialità, genere, missione viene progressivamente erosa. Ciò che identifica viene giudicato divisivo. Ciò che definisce viene percepito come esclusivo. Ciò che chiede obbedienza viene sospettato come moralismo. Il risultato è una “universalità senza forma”. Tutti sono accolti, ma nessuno è veramente riconosciuto. Tutto è sommato, ma nulla è realmente integrato.
È la fase in cui dalla precedenza dell’oggettività si è definitivamente scivolati nella tirannia della soggettività. Dal primato della verità alla dittatura del relativismo. Se non esiste più una verità che precede le nostre opinioni, l’universalità non può che ridursi a protocollo (transeunte) di convivenza. Fragile equilibrio di sensibilità e interessi. L’altro non è più portatore di una verità che mi riguarda, ma solo di un’opinione che ho il dovere di non ferire. E che ha il dovere di non ferirmi. Sintesi impossibile.
La differenza non è più considerata un dono che arricchisce. Non è più chiamata a generare incontro e confronto, ma viene trattata come qualcosa da sterilizzare. Per non turbare la pace apparente. L’universalismo amorfo, dunque, nel timore di ferire, rinuncia a dire qualcosa di vero sull’Uomo. Sul piano sociologico, questa dinamica si traduce in società liquide. Dove identità e legami sono reversibili e intermittenti. Le istituzioni tradizionali – famiglia, comunità religiose, appartenenze culturali – vengono relativizzate in nome della libertà individuale. Ma in mancanza di alternative solide, il vuoto viene riempito da dispositivi impersonali: mercato, tecnocrazia, piattaforme digitali. Questi nuovi “alfabeti comuni” non si presentano come ideologie, ma come infrastrutture neutre. Ma, in realtà, selezionano ciò che è dicibile, visibile, desiderabile. Orientando e manipolando. L’omologazione non passa più solo attraverso la legge, ma attraverso algoritmi, mode, narrazioni globali che preformano (e performano) l’immaginario. L’individuo, proclamato sovrano, diventa, in realtà, schiavo. Continuamente interpellato a conformarsi a codici estetici, emotivi, linguistici che avvicinano tutti, ma appiattiscono le differenze. Le identità “troppo” definite – religiose, culturali, etiche – vengono marginalizzate come potenzialmente conflittuali. In nome dell’inclusione si chiede, esplicitamente o implicitamente, di sfumare ciò che si è, di nascondere ciò in cui si crede, di ridurre le appartenenze a fatto privato irrilevante. Si chiede alla persona di sciogliersi in una soggettività generica, “aperta a tutto”, ma in fondo vuota di contenuto stabile. Priva di verità. È il dispotismo della indeterminatezza. Ognuno è illuso di essere. Ma, allo stesso tempo, tutto lo spinge, sostaanzialmente, a non essere.
La critica all’universalismo non è, quindi, nostalgia di chiusure identitarie. Bensì difesa dell’universalità autentica. Quando l’universalismo diventa ideologia, pretende di stabilire a priori che cosa debba essere riconosciuto come umano. Spesso a partire da una visione parziale, storicamente situata, ma presentata come neutra. Così, valori nati in determinati contesti culturali vengono elevati a misura unica. Mentre altre forme di saggezza, altre strutture simboliche, altre antropologie vengono stigmatizzate come arretrate, patriarcali, illiberali. L’universalismo cessa, così, di ascoltare e inizia a colonizzare. Non cerca più un nucleo comune di verità, ma impone un modello di umanità “accettabile”.
La contraddizione è evidente: un sistema nato per tutelare la pluralità finisce per esigere che tutte le differenze si riconfigurino al suo interno secondo parametri prestabiliti. Il mito della neutralità rientra in questa logica. Per includere tutti, si chiede di sospendere ciò che definisce profondamente l’Umano. Come se la sola base comune possibile fosse l’indifferenza. Ma una società che fonda la sua unità sull’indifferenza alle differenze prepara, in realtà, nuove esclusioni. Chi non accetta di essere neutro, chi rivendica un’identità forte, chi obbedisce a una verità ritenuta non negoziabile, verrà facilmente percepito come problema da contenere.
Qui entra in gioco il nesso tra verità, obbedienza e armonia. Se il criterio ultimo è solo la soggettività, le differenze restano in competizione permanente, e l’universalità diventa il nome nobile del compromesso. Al ribasso. Ma se esiste una verità che precede e supera ogni individuo e ogni cultura, allora le differenze possono trovare un principio di composizione che non le annulla. L’armonia delle differenze è nell’obbedienza. Non nell’obbedienza passiva a un potere. Ma nell’obbedienza attiva a ciò che è autentico e vero. L’obbedienza, in questa prospettiva, non è nemica della libertà. È, invece, il modo concreto in cui la libertà riconosce che non è origine di sé stessa, che vive di un dono, che si realizza accogliendo un ordine più grande.
È universale ciò che è autentico e vero. E ciò che è autentico e vero è, insieme: diacronico e sincronico, contestualizzato nello spazio, logico e trascendente. Se anche una sola di queste qualità viene a mancare, crolla l’autenticità, la verità e l’universalità di ogni principio. Finanche la teologia è chiamata a rispondere a questa regola insuperabile. Ciò che è solo frutto di desiderio individuale, di pressione culturale, di interesse di parte, di sensibilità circoscritta storicamente, di speculazione passeggera, resta inevitabilmente particolare. Per quanto si pretenda di estenderlo a tutti. L’universale non coincide con ciò che si diffonde ovunque, ma con ciò che, proprio perché corrisponde alla verità dell’Umano, può essere riconosciuto da chiunque in quanto tale. In questo senso, l’autentica universalità non è mai amorfa. Essa ha forma. Chiede coerenza. Chiede responsabilità. Chiede obbedienza a qualcosa che non si inventa. L’universalismo amorfo è, al contrario, il tentativo di mantenere l’idea di universalità senza l’impegno della verità, di preservare la tensione alla comunione senza accettare la fatica del discernimento.
Nella tradizione cristiana l’universalismo trova la sua soluzione più matura. Perché coincide con Cristo. Verità eterna sull’Umano. Logos divino che si incarna. Anche la fede, tuttavia, corre il rischio di diventare amorfa. Quando si smarrisce Cristo, si perde l'identità. Non sapendo chi è Cristo, non possiamo conoscere chi siamo noi. Cristo è il differente eterno in cui ogni differenza storica trova la propria sintesi armonica. Senza Cristo tutto è avvolto da indeterminatezza e non identificazione. Mancando la distinzione, ognuno potrebbe essere l'altro. E l'altro ognuno. Anche in questo caso è facile, allora, cadere in una specie di universalismo inconsistente, incapace di preservare e valorizzare ogni autentica specificità costitutiva. Quando ciò che identifica viene dichiarato eresia si apre – irreparabilmente – una breccia verso una sorta di panteismo cosmico, religioso, sociale, ecclesiale, civile, familiare. È allora che nel mondo si respira confusione, usurpazione, trasformazione, caos veritativo, morale, sociale, religioso, civile.
In questo paesaggio complesso si colloca la figura dell’Armonauta. Non è il nostalgico delle certezze rigide, né il profeta dell’indistinto. È colui che, attraversando il conflitto tra individuo e collettivo, tra particolare e universale, tra passato e futuro, cerca il punto in cui le differenze possono risuonare insieme senza annullarsi. Trovando nella verità costitutiva il principio di sintesi. L’Armonauta sa che la pace vera non nasce dalla cancellazione degli opposti, ma dal loro accordo intorno a un principio più alto. Per questo diffida tanto delle identità chiuse in sé stesse quanto dell’universalismo amorfo che chiede alle identità di dissolversi. Il suo compito è duplice. Da un lato, ricordare alle società moderne che l’alfabeto comune della convivenza non può ridursi alla somma di diritti soggettivi illimitati, ma deve poggiare su una verità condivisibile dell’Umano, su alcuni “indisponibili” che nessun consenso può revocare. Dall’altro, ricordare alle comunità particolari – religiose, culturali, politiche – che la loro identità è autentica e universale nella misura in cui è vera, cioè capace di parlare al cuore di tutti senza rinnegare sé stessa. Senza scadere nelle intransigenze e nei massimalismi. Perché la verità – ogni vera verità – ama e accoglie. Si dona e genera vita. Sempre. Nel tempo e nello spazio.
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