Il sogno di sconfiggere la morte consuma l’umano

Il progresso promette di allungare la vita, ma ne svuota il senso, riducendo il mistero dell’esistenza a problema tecnico e consumando il sacro che la custodiva
December 2, 2025
Il sogno di sconfiggere la morte consuma l’umano
Il progresso genera paradossi. Tra i tanti, il più decisivo riguarda, forse, il rapporto – in continua (ed ontologica) trasformazione – tra l’Umano e il “mistero della vita”. Un rapporto duplice. Per molti versi antinomico, aporetico e persino confliggente. Da un lato assistiamo alla vertiginosa accelerazione dello sviluppo tecnologico che promette un’estensione senza precedenti della qualità e della durata dell’esistenza; dall’altro, registriamo il continuo accrescimento della cultura della morte. In gran parte attribuibili (paradossalmente) ad una mutata sensibilità morale, culturale, sociale, civile e normativa. Oltre che alla saldatura nichilista tra utopismo-tecnologico e misantropia umana.
Proviamo ad approfondire. Secondo alcune recenti ipotesi –notizia del novembre 2025 – potremmo essere vicini alla “longevity escape velocity”. Per analisti come Ray Kurzweil e per diverse aziende biotech, entro un decennio l’invecchiamento potrebbe diventare “curabile”, prolungando la vita oltre i 120 anni. Sebbene molti autorevoli scienziati si mostrino prudenti – tra questi S. Jay Olshansky, con un recente studio su Nature Aging – la ricerca su questo tema continua, inarrestabilmente, ad avanzare. Esperimenti epigenetici condotti su topi anziani hanno già esteso la vita del 70%. In Cina e Stati Uniti proliferano le cosiddette “isole dell’immortalità”: laboratori e distretti dedicati alla “conquista della longevità”. Non stupisce il recente dialogo – fortuito o strategico? – tra Vladimir Putin e Xi Jinping su questi temi. Progetti di “radical life extension”, finanziati da giganti del tech e startup biotech, sono ormai cronaca: cellule staminali, terapie geniche anti-aging, farmaci progettati dall’IA per riprogrammare l’età biologica, nanobot capaci di riparare tessuti dall’interno, organi bioingegnerizzati, terapie senolitiche contro le “cellule zombie”. Opzioni (conquiste?) inimmaginabili sino a pochi decenni fa.
Eppure, parallelamente, la cronaca sociale racconta debolezze e distopie di una civiltà che – mentre sogna di “sconfiggere la morte” – fatica a custodire la vita nella sua interezza, nella sua relazione e nei suoi significati più profondi. In un recente dibattito etico della Sylvans Society (giugno 2025), sono emersi i rischi connessi con la prospettiva di un ciclo di vita esteso indefinitamente ma svuotato del suo senso. Come ricorda la World Health Organization, conta più la healthspan – vita sana e relazionale –della mera lifespan. E qui, l’intreccio tra alcune questioni sensibili (e cruciali) dell’agenda sociale e politica si fa sempre più complesso, generando un cortocircuito crescente: doveri morali sopraffatti dai diritti individuali, principi non negoziabili annullati dal relativismo etico ed umanistico.
Intanto il modello di sviluppo egemone, estrattivo ed incrementale, concentra la ricchezza nei pochi a danno dei molti. Spesso al prezzo della stessa vita. In Silicon Valley startup come Preventive sperimentano, in chiave preventiva, protocolli di editing genetico CRISPR. Non è da escludere che questa tecnologia possa, rapidamente, sfociare nell’eugenetica. Ignoriamo le intenzioni del fondatore Lucas Harrington e dei suoi finanziatori – tra cui Sam Altman e Brian Armstrong – ma la traiettoria non stupirebbe.
In sintesi: il progresso – tecnologico, culturale, sociale, legislativo – si fa Prometeo. Attraversa l’intero “mistero della vita”, dalla nascita alla morte. Sfida ogni limite naturale. Diffonde campi silenziosi di abbandono, solitudine e morte. La questione è profondamente antropologica. Nel nome di una rivendicazione esasperata di libertà e autodeterminazione, è progressivamente ed irrimediabilmente andato in frantumi l’impianto sociale, morale, culturale e normativo che per secoli ha saputo garantire la custodia integrale del “mistero della vita”. E all’orizzonte non si intravede ancora una cornice alternativa. L’antropologo Clifford Geertz ricordava che«l’uomo è un animale sospeso tra ragnatele di significati». Rottasi la ragnatela, resta il vuoto. Perché nessuna legislazione umana può rendere nulla la legge della coscienza, della ragione, del discernimento vero.
Questo vuoto ha un’origine precisa: la morte del sacro. Per secoli l’Uomo ha custodito la vita come un mistero, non come un oggetto. L’ha considerata un bene affidato, non un bene posseduto. Una realtà da venerare, non da manipolare. Oggi, invece, il mistero è diventato un problema tecnico; il limite, un difetto di progettazione; la fragilità, un errore da correggere. Il sacro – anche inteso in senso laico, come radice di rispetto, timore, meraviglia – si è dissolto nell’indifferenza. Mircea Eliade lo aveva previsto: una società che desacralizza la vita finisce per desacralizzare l’Uomo. Siamo pienamente dentro questa previsione. Quando la vita non è più considerata “altro” rispetto a noi, diventa “meno” di noi: un “accidente inutile”. Diventa materiale operativo, risorsa biologica, spazio di progettazione. Perché il sacro non è solo una dimensione religiosa: è il limite che preserva la vita dalla tentazione di manipolarla. È la soglia che protegge l’umano dalla sua stessa potenza. È ciò che ci ricorda che siamo creature finite, non demiurghi onnipotenti. Quando questa soglia cade, tutto diventa possibile. Ed in questo “tutto senza tutto”, l’umano si dissolve.
La domanda decisiva non è, dunque, “quanto possiamo vivere?”, ma “come e perché dobbiamo vivere?”. E, ancora più a fondo: “che cosa rimane dell’Umano quando la vita perde la sua dimensione simbolica, rituale e sacra?”. Gli antichi ponevano questi problemi davanti ai misteri eleusini; la modernità li reprime come rumore di fondo. Psicologia, sociologia, antropologia e filosofia hanno nomi diversi per la stessa ferita: anestesia del significato, iper-razionalizzazione vitale, ritorno dell’irrilevanza, morte del fondamento. Heidegger ricordava che, quando non si compie la “quadratura” (geviert) di cielo e terra, mortali e divino, l’Uomo diventa un “essere senza casa”.Mentre inseguiamo un’estensione un tempo inimmaginabile della lunghezza (durata) e della larghezza (qualità) della vita, assistiamo a una contrazione quasi totale della sua profondità (senso). La vita perde la sua tridimensionalità. Ovvero la sua armonia. Viviamo più a lungo e più in largo, ma non più in alto. Abitiamo un’esistenza sempre più estesa e molteplice, ma sempre meno densa. Aumentiamo le possibilità, ma smarriamo i significati.
Ecco, allora, la vertigine irrisolta: un’epoca impegnata a prolungare la vita, ma che non sa più “vedere” la vita. Una civiltà che spera di dominare il tempo, ma non sa più abitare il senso. Un mondo che continua a moltiplicare le soluzioni tecniche, ma ha dissolto le domande ultime.
Il paradosso dell’era post-sacrale è tutto qui: ampliare l’esistenza, mentre si contrae la vita. Spingere il futuro molto avanti, confinando il presente alla pura funzionalità.
Per questo, nel suo piccolo, l’Armonauta continua ciò che le grandi civiltà hanno sempre fatto: ricomporre la vita con il suo mistero, ricordare che il limite non è negazione della libertà, ma fondamento della dignità. Perché non esiste innovazione che valga più della vita stessa, e non esiste progresso che possa sostituire quel silenzio da cui ogni umanità è generata. Perché la vita altro non è (e altro non deve essere) che un lungo cammino alla scoperta di se stessi, alla riconciliazione con la verità di noi stessi.
Il mistero della vita non chiede di essere decifrato. Chiede di essere custodito. E l’Armonauta – fragile, vigile, ostinato – ricorda al mondo di oggi ciò che il mondo di ieri sapeva, senza saperlo: solo riconoscendo il mistero possiamo tornare a riconoscerci umani.
Che l’Avvento appena iniziato possa essere per tutti noi questo cammino di rinascita. Affinché anche noi possiamo essere partoriti al Mistero della Vita vera e della Vera Speranza, nella grotta di Betlemme. Dalla Madre Nostra. Solo Lei può farlo.

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