La (falsa) innocenza del presente

Il destino dell’Uomo moderno è troppo spesso quello di credersi evoluto mentre affina strumenti sempre più sofisticati utili a reiterare gli stessi errori di ieri
November 18, 2025
La (falsa) innocenza del presente
«Ogni epoca», scriveva T.S. Eliot, «crede di essere più intelligente della precedente e più saggia della successiva». La nostra non fa eccezione. Purtroppo. Condanniamo il male di ieri e giustifichiamo quello di oggi. Ci indigniamo per le ombre della storia, glorifichiamo l’attualità. Guardiamo la pagliuzza nelle pieghe del passato, ignoriamo la trave nelle trame del presente. È comodo. Deresponsabilizza. Assolve. Illude. Ci fa sentire migliori. Ma non lo siamo. Ogni tempo esprime la propria peculiare forma di disumanità. Ogni momento storico è, insieme, colpa e promessa. Ignorarlo ci rende rei. Nel qui ed ora si consuma il nostro inganno. Il presente diventa divinità. Senza volto. Senza cuore. Un vitello d’oro modellato sull’ego e sulla hybris. Lo adoriamo perché ci illude di essere liberi e senza alcun obbligo di obbedienza verso la nostra verità costitutiva. È la più subdola delle idolatrie: quella del “tempo” che crede di non avere più nulla da imparare dagli eventi che lo hanno preceduto. E così, senza accorgercene, mentre giudichiamo il passato, finiamo fatalmente per costruire un futuro infinitamente più orrendo. Ma quando il futuro che stiamo costruendo sarà divenuto passato – come ogni futuro di ieri è sempre divenuto passato – allora dovremo chiedere perdono al Dio di domani per aver ridotto in menzogna e in falsità tutta la Sua Verità di oggi. «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite belle tombe per i profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”».
Si conferma l’intuizione di Nietzsche: «Ogni epoca ha la sua (falsa) innocenza che consiste nel non sapere ciò che fa». Forse è proprio questo il destino dell’Uomo moderno: credersi evoluto mentre affina strumenti sempre più sofisticati utili a reiterare – con maggiore perizia e disincanto – gli stessi errori di ieri. Il male del nostro tempo non è più visibile come nel passato. È camuffato, sfumato, silenzioso. Finanche legalizzato. È il male dei falsi diritti. Dei doveri rinnegati. Della distrazione. Dell'apatia elevata a forma di tolleranza. Delle diseguaglianze crescenti. Del neopositivismo tecno-digitale. Del primato dell’avere sull’essere. Delle ferite ambientali. Del modello di sviluppo estrattivo, acquisitivo ed incrementale. Della perdita del legame comunitario. Dell’individualismo. Dell’iper-soggettivismo. Del relativismo. Dello smarrimento di ogni prospettiva ontologica, soteriologica ed escatologica in nome di una infondata, eterea ed ingannevole antropologia. È il male che vive nelle asimmetrie economiche. Nelle esclusioni sociali e culturali. Nelle molteplici solitudini. Nella falsa idea di libertà. Nella negazione della verità. È il male che si nasconde e si perpetua nelle leggi che lo dichiarano bene (e che dichiarano male il bene). “Il male non è mai radicale, è solo estremo, e si diffonde come un fungo sulla superficie. Esso è banale, ordinario, privo di coscienza” scriveva Hannah Arendt. Abbiamo imparato a uccidere senza sangue, a escludere senza odio, a costruire campi di sterminio invisibili. Non più luoghi fisici, ma condizioni esistenziali che cancellano la dignità. Nell’indifferenza. Nella distaccata noncuranza di drammi morali oramai vissuti come automatismi funzionali: bambini mai nati, anziani mai curati, sofferenze sprecate, nature tradite, famiglie e legami costantemente frantumati, vite trascurate e colpevolmente non custodite, ingiustizie socioeconomiche, distopie tecno-ottimiste. Piangiamo Auschwitz ma non vediamo i muri che dividono ancora i popoli e ci siamo assuefatti al sangue con cui ogni giorno macchiamo la nostra coscienza. Denunciamo Hiroshima ma non sentiamo il rombo invisibile dei droni e delle armi biologiche, genetiche e normative che ogni giorno sganciamo nel silenzio, nella complicità e nell’assuefazione. L’orrore è diventato normalità. È questa la grande novità. Come in “The Truman Show”, viviamo in una prigione perfettamente decorata, dove la libertà è una scenografia convincente e la verità una possibilità marginale.
La Storia ci appare migliore solo perché la guardiamo in superficie. La nostra concezione del progresso lineare – nata nel Settecento come secolarizzazione dell’escatologia cristiana – è diventata la nostra nuova fede (senza fede). Quasi una nuova teologia (senza Dio e senza Logos). Ma, come scriveva Dostoevskij, «se Dio non esiste, tutto è permesso». E subito dopo, nulla ha più senso. Puro nichilismo. È l’Uomo che si fa dio da se stesso. E che facendosi dio da stesso smarrisce finanche la propria Umanità. Finendo per non riconoscersi. La macchina lo imita meglio di quanto lui imiti Dio.
La modernità, dunque, non è irreligiosa: ha solo cambiato culto. Le civiltà antiche associavano la felicità all’ordine dell’anima. Oggi la colleghiamo al possesso. Il progresso materiale non ha generato progresso spirituale. Anzi. Avanza una nuova forma di analfabetismo del senso (e del sacro). Eppure, dietro questo declino sopravvive un impulso originario: l’urgenza di credere, la necessità ontologica di credere. Il bisogno vitale di riconnettere la nostra dimensione fenomenica con quella noumenica. Di riaccendere la scintilla di verità che sopravvive negli strati più profondi della nostra coscienza (individuale e collettiva). Possiamo e dobbiamo ritrovare lo “sguardo dello Spirito”. È lo sguardo che salva. È lo sguardo che svela le falsità e le menzogne che avvolgono la nostra esistenza. È lo sguardo che libera da tutte quelle catene e strutture di vizio, di inganno e di male, che sottraggono umanità alla vita. È lo sguardo che ci fa veri.
Ecco la missione dell’Armonauta, allora: rendere oggi umano ciò che è disumano, buono ciò che non è buono, giusto ciò che non è giusto, morale ciò che non è morale, vero ciò che non è vero, spirituale ciò che non è spirituale. Convertire il male in bene. Anche a costo della propria vita. Anzi, necessariamente a costo della propria vita. Perché “solo il chicco che muore produce frutto”. Per essere “buoni amministratori della multiforme grazia di Dio”. Molto più che (solo) buoni antenati della future generazioni. Molto più che (solo) buoni discendenti delle generazioni che ci hanno preceduto. Molto più. Molto più. Come l’angelo della Storia di Walter Benjamin, anche noi guardiamo verso il passato mentre il vento del progresso ci sospinge nel futuro. Ma se non impariamo a cercare la verità tra le rovine, il vento diventerà tempesta. C’è la Luce sotto le macerie della Storia. Il mondo l’ha dimenticata. Ad ogni buon Armonauta il compito di trovarla e di porla sul moggio, rispondendo ad una chiamata che ci obbliga.

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