Quanta paura a vincere insieme al nemico
Il patto saltato tra Meloni e Schlein sul ddl consenso svela un dilemma: quando si vince in due di chi è la vittoria? il sociologo Rabinow: non si perde ma si conquista

La parola del giorno è consenso. Ma non tutti sono d’accordo. Nella Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, nel discorso mediatico, emergono prevalentemente due dimensioni del consenso. Da una parte, Il riferimento alla necessità del consenso informato dei genitori nel disegno di legge del Ministro Valditara sull’educazione psico affettiva nelle scuole. Dall’altra, il consenso compare nella proposta di modifica del Codice penale che disciplina la violenza sessuale, votato qualche giorno fa alla Camera con un inedito voto bipartisan all’unanimità. Nel merito, la riforma pone il punto fondamentale che il consenso non si può mai dare per scontato, in nessuna situazione, MAI. Senza consenso, è violenza. (Per chi volesse saperne di più, ne ha scritto il 19 novembre per Avvenire Antonella Mariani in collaborazione con Elena Biaggioni, avvocata del Dire, Donne in rete contro la violenza).
Politicamente, quella che pochi giorni fa è stata applaudita come una grande intesa tra le due donne a capo di maggioranza e opposizioni, oggi scricchiola. Un lungo percorso legislativo supportato e richiesto dai centri antiviolenza, dalle organizzazioni per i diritti umani, dalla società civile si è (momentaneamente, speriamo) interrotto in Commissione Giustizia del Senato, perché, nelle parole della Presidente della Commissione, la senatrice della Lega Giulia Buongiorno, «ci sono piccole lacune». Perché un voto dato all’unanimità alla Camera viene smentito pochi giorni dopo al Senato? Peccato per mille motivi.
Forse vincere insieme fa paura perché, quando la vittoria è condivisa, di chi è davvero? Se siamo insieme nella vittoria, che ne è di me se divento come te? La differenza sembra la matrice del riconoscimento di sé, mi differenzio dunque esisto: la separazione tra me e l’altro è la condizione della mia esistenza. Nel suo "Archeologia della violenza e altri saggi di antropologia politica", Pierre Clastres racconta di come nelle società amazzoniche, la differenza e la separazione tra gruppi non siano anomalie da superare ma principi fondamentali dell’organizzazione politica. L’accordo stabile, per Clastres, può essere vissuto come una minaccia alla libertà politica del gruppo: cooperare troppo significa esporsi al rischio di essere inglobati, dominati, o privati della propria identità. Nell’agone politico stringere accordi è perdere un pezzetto di territorio.
Se ci si avvicina troppo emerge le necessità di “piccole lacune” che funzionano da dispositivo simbolico per proteggere territori politici, identità di partito e forme di potere. Su questi giochi di riposizionamenti, di attese, di equilibri interni si gioca il destino di un riconoscimento fondamentale: un rapporto sessuale senza consenso è stupro, se il consenso manca, tentenna, se non è libero e attuale, è stupro. Mi piace però riprendere il pensiero più risolutivo di un altro antropologo, Paul Rabinow che richiama alla scoperta antropologica come un dialogo tra culture diverse che crea un sapere terzo, che non appartiene a nessuno dei due dialoganti ma è il risultato della mediazione tra le parti di un significato condiviso. (Paul Rabinow, Reflections on Fieldwork in Morocco, 1977). È un invito a non considerare l’incontro tra posizione in termini geografici di terreni guadagnati o persi ma piuttosto alla creazione di uno spazio condiviso. Non perdiamo un pezzo di vittoria nel vincere assieme, tutt’altro. Stiamo creando uno spazio altro in cui le nostre differenze non sono così significative. Uno spazio di consenso, libero e attuale.
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