Quanta paura di protestare (manco fosse un reato)
Preferiamo spesso cambiare noi stessi per non soffrire troppo nell'interazione con il mondo fuori. Invece di provare a cambiare le regole che ci fanno soffrire

Questa settimana ho sentito più volte parlare di proteste e ho pensato che forse protestare fa paura. È più accettata la lamentela perché resta a un livello individuale, un dire borbottante. Protestare, invece, è diventato socialmente riprovevole. È un pensiero che si è fatto strada durante tutta la settimana. È apparso il 10 dicembre a un incontro per le scuole nella Giornata dei Diritti Umani, nata per celebrare l'adozione nel dicembre del 1948 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L'Art. 19 (Libertà di opinione ed espressione) cita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».
Anche l'articolo 20 (Libertà di riunione pacifica) afferma il diritto di associarsi e riunirsi pacificamente, essenziale per le manifestazioni collettive. Gli organizzatori della giornata avevano invitato due donne iraniane scappate dalla violenza repressiva del regime (Safad Baghbani e Parisa Nazari), la loro testimonianza ha commosso e provocato indignazione unanime. Dopo di loro è intervenuto il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, che ha ricordato come lo stato di salute di una democrazia si riconosca da quanto sa dialogare, ascoltare e gestire anche il dissenso, oltre al consenso. Dopo questi interventi così condivisi senza se e senza ma, è intervenuto Simone Ficicchia, attivista per la giustizia climatica, italiano, giovane e sotto processo per le sue azioni di disobbedienza civile non violenta. Davanti a più di 30mila studentesse e studenti collegati da tutta Italia, Simone ha spiegato l'urgenza di protestare per la giustizia climatica. Perché ho avuto la percezione che la sua storia fosse più divisiva delle precedenti eppure così preziosa? Ho continuato a pensare. Succede che poi, qualche giorno dopo, un gruppo di studenti dell'Unione Universitaria ha raggiunto la ministra dell'Università alla festa di Atreju per protestare contro il semestre filtro per l'accesso alla Facoltà di Medicina. «I soliti poveri comunisti», è stata la risposta. Passano altri giorni, sono a pranzo con amici e una di loro solleva una riflessione molto interessante sulla proliferazione di metodi per l'auto trasformazione: mindfullness, training autogeno, attività sportiva finalizzata a scaricare energie, psicoterapie, a fronte di tutto questo, però è crollata la partecipazione politica. Cambiare sé stessi (a pagamento) per non soffrire troppo nell'interazione con il mondo fuori. Invece di protestare per cambiare le regole che ci fanno soffrire investiamo per adattarci e sopravvivere. Perché? Forse la protesta oggi non gode più di buona stampa, non è più considerata parte della vita democratica perché, più spesso, è descritta come un impedimento, un remare contro. Ho continuato a pensarci.
Alla fine della settimana sono stata a teatro a vedere lo spettacolo di Rita Pelusio e Rossana Mola che hanno portato in scena Lo Sciopero delle bambine, la narrazione dello sciopero delle piscinine, centinaia di bambine impiegate come sartine che nei primissimi anni del Novecento scioperarono a Milano in centinaia per chiedere più diritti: un'ora di pausa pranzo, il festivo pagato, turni di lavoro meno massacranti. L'hanno ottenuto scioperando. Protestare è un diritto. È un motore di cambiamento, è un esempio per le nuove generazioni. Non bisogna aver paura di protestare.
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