L'ordalia del referendum e l'incubo di una sconfitta per tutti
Da qui a marzo il fronte del Sì e quello del No si scontreranno, sulla separazione delle carriere e non solo. Ma ogni parte in causa (anche la premier) correrà dei rischi, compresi i cittadini elettori.

Da metà settembre, quando si era compreso come i tempi per l’approvazione definitiva in Parlamento del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere in magistratura fossero imminenti, uno spettro si aggira nelle stanze della politica. Il suo nome è “referendum confermativo” ed è, com’è noto, lo strumento predisposto dall’articolo 138 della Carta per mettere i cittadini elettori in grado di confermare, appunto, o di respingere una legge di revisione costituzionale approvata dalle Camere senza la maggioranza qualificata dei due terzi. In pratica è un domandare al «popolo» - per citare un termine rispolverato dal Guardasigilli Carlo Nordio -, di fare da ultimo giudice rispetto a un’istanza del Parlamento sull’adeguamento della Carta fondante. In questo caso, è una vexata quaestio, un cavallo di battaglia del moderno centrodestra sin dai tempi del suo federatore Silvio Berlusconi, portato infine a dama, o quantomeno all’approvazione delle Camere, dall’attuale coalizione al Governo. Non staremo qui a ragionare dell’opportunità della riforma, del fatto che sia stata portata avanti unilateralmente dalla maggioranza o della sua effettiva utilità rispetto al funzionamento della macchina della Giustizia (Avvenire lo sta facendo con documentati servizi ed editoriali, da ultimo quello di Danilo Paolini), quanto piuttosto della deriva malsana che il dibattito sulla giustizia ha preso e che - in vista di un appuntamento divisivo per definizione perché basato sull’aut aut, qual è appunto un referendum - potrebbe tramutare il voto di primavera in una sorta di partita in cui, alla fine, perdono tutti.
Nella teoria dei giochi, una situazione lose-lose è quella circostanza da cui nessun giocatore trae un effettivo vantaggio, indipendentemente dal risultato. Nella partita referendaria che partiti, toghe e cittadini si apprestano a giocare da qui alla prossima primavera, diversi piani inclinati si intersecano. Sul primo, quello politico, il giocatore che siede a capotavola, e apparentemente detiene la posta più alta, è la presidente del Consiglio. Sebbene il ministro Nordio, “padre” legislativo della riforma, e il presidente del Senato Ignazio La Russa ripetano come un mantra che «il referendum deve considerarsi come un quesito sul piano tecnico» e non un «Meloni sì o Meloni no», cioè un test di gradimento sull’operato dell’esecutivo, pare quasi inevitabile che possa incanalarsi su quel binario.
Una penna del Novecento che di politica se ne intendeva, come la francese Françoise Giroud (che fu sottosegretaria di Stato nel gabinetto del primo ministro Jacques Chirac), annotava come «in un referendum, il popolo non risponde mai alla domanda che viene posta, dà solo la sua adesione o il suo rifiuto a colui che la pone». Giorgia Meloni è una politica troppo navigata per non esserne consapevole. E la sua convinzione sul fatto che il voto debba «essere una consultazione sulla giustizia» e che «non ci saranno in ogni caso conseguenze per il Governo, che arriverà a fine legislatura», potrebbe incrinarsi di fronte a un risultato sgradito e dalle proporzioni inattese. Questo referendum è un salto nel vuoto, perché non protetto dal paracadute del quorum. E se nei mesi scorsi i possibili elettori intervistati dai sondaggisti erano in gran parte a favore della riforma, al momento i potenziali sì e no si equivarrebbero.
Certo, una eventuale “personalizzazione” meloniana della campagna potrebbe spostare l’asticella a favore dei desiderata del Governo. Ma, se andasse male, il rischio "lose" sarebbe quello di dover pagare un conto salato, come insegna la parabola dell’ex premier dem Matteo Renzi, che non a caso già stuzzica Meloni. Se dunque da un lato del tavolo, l'incubo innominabile parrebbe essere quello delle Idi di marzo, sul fronte del No ci sono altri rovelli.
Per il centrosinistra (che sulla giustizia è campo “un po’ meno largo”, come mostrano le posizioni di Calenda e dello stesso Renzi) la sfida è quella di trovare una voce propria, non appiattita su quella della magistratura associata, per non regalare al Governo l’argomento di una opposizione presunta alleate delle “toghe rosse”. Un rischio che, specularmente, corre pure l’Anm che, mettendosi in gioco con un proprio Comitato per il No, rischia di vedersi cucita addosso un’etichetta di “magistratura politicizzata” che sarebbe non semplice scrollarsi dopo, comunque vada il referendum. Molto dipenderà dal registro e dalle ragioni adoperate nella campagna referendaria. Vicende come quelle innescate dal caso Corte dei conti non aiutano, ma di certo più gli atteggiamenti e le parole delle toghe saranno barricaderi, da comizio, “politici” anziché “tecnici”, e più il rischio di perdere qualcosa aleggerà su una categoria che sta faticosamente restaurando una credibilità incrinata dal terremoto del caso Palamara.
L’ultimo piano inclinato riguarda i cittadini, soprattutto quei 46 milioni di aventi diritto al voto che sempre più di rado si trasformano in elettori: già disorientati e disamorati dalla politica, vivranno questi prossimi cinque mesi sballottati e assordati dalle motivazioni propugnate dai due schieramenti: in un Paese che già è immerso in una permanente campagna elettorale (nazionale, regionale, locale), il clima venefico di scontro sulla giustizia e i toni da ordalia non li aiuteranno a comprendere le reali ragioni a favore o contro la riforma. E se dovessero, come in altre consultazioni precedenti, decidere di astenersi, di non andare a votare, finirebbero per essere i primi perdenti, per aver rinunciato a esprimersi su quello che viene presentato come un cambiamento epocale.
Da qui a marzo, dunque, occorreranno attenzione, toni pacati, argomentazioni chiare e profondo rispetto per le ragioni opposte, da una parte e dall’altra. E fra i cittadini servirà una buona dose di desiderio di conoscere, di informarsi, per poter infine decidere al meglio. In caso contrario, ancora una volta, a prescindere da chi vinca, a perdere sarà la democrazia.
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