Dare voce e giustizia agli invisibili
martedì 23 gennaio 2024

«Non c’è pace senza giustizia». La massima risale agli anni Ottanta, quando iniziò a risuonare nelle proteste per le strade americane. Marca un nesso che si vorrebbe indissolubile e a senso unico. La formula originale era però più articolata. 14 gennaio 1968, Alameda, California. L’America è dilaniata dal conflitto vietnamita e Martin Luther King parla a una piccola folla davanti al penitenziario Santa Rita dove ha fatto visita a Joan Baez, la madre e un’altra attivista arrestate per una manifestazione. Per il padre del movimento per i diritti civili e della resistenza pacifica il destino serba una morte violenta ottanta giorni più avanti. D’un tratto dice: «Non può esserci giustizia senza pace e non può esserci pace senza giustizia». Quasi un ossimoro. King vuole mettere in relazione il movimento per i diritti civili e l’impegno per la pace. Considera le attiviste portatrici dell’obbligo morale a protestare contro l’ingiustizia della guerra. In tal senso, pace e giustizia stanno e cadono insieme.

Primo gennaio 1972. Paolo VI riprende la connessione fra i due valori con una diversa sfumatura. Intitola il suo messaggio per la quinta giornata mondiale della pace: «Se vuoi la pace, lavora per la giustizia». Si rivolge a chi esercita responsabilità pubbliche. Identifica la pace con l’ordine fissato nella legge, che è illecito infrangere. Vede nella giustizia «ciò che è e che deve essere», una forza propulsiva che può germinare assetti migliori di quelli vigenti, che può promuovere ideali nobili, condizioni di sviluppo nazionale, sociale, economico e culturale più eque, esenti da calcoli di dominio.

Spostiamoci sulle dinamiche dei conflitti armati. La pace è condizione per la giustizia o il suo obiettivo ultimo? È lecito diluire la giustizia per facilitare la pace? O rendere giustizia anche a costo di innescare o aggravare conflitti? Non ci sono risposte universali.

Uno. Le atrocità di massa, attacchi a civili inermi, distruzioni, stupri, torture, terrorismi, genocidi, sono sempre atti politici. Il Male è funzionale al potere. Si uccide, si tortura, si perseguita per dominare spazi e risorse, per governare con la paura, annichilire il dissenso, soggiogare le volontà. Il sangue impregna il potere che giustifica il sangue. La giustizia penale internazionale deve accertare e sanzionare le atrocità criminali, ma non può comporre i conflitti politici che ne sono all’origine. I governi fanno la guerra e la pace. I tribunali né l’una né l’altra. La deterrenza è però una funzione significativa delle corti internazionali, che non sempre si realizza. Mentre i crimini sono in corso, una misura d’urgenza come un ordine di cattura, può indurre i belligeranti a rispettare le norme internazionali che attenuano la disumanità della guerra. Ad esempio può spingere a sospendere la deportazione dei civili del nemico, rilasciare gli ostaggi o limitare i danni incidentali alle persone incolpevoli e inermi, impiegando nei centri abitati armi di precisione invece di bombe indiscriminate.

Due. Giustizia e politica non nacquero sorelle, ha scritto Francesco Carrara. Devono essere sempre reciprocamente indipendenti. Il giudice delle atrocità internazionali però è immerso nella geopolitica, cammina dentro la cronaca che si fa storia. Gli Stati possono ostacolare il corso della giustizia, impedi-re le indagini, proteggere i destinatari dei mandati di cattura, perseguitare giudici, procuratori, funzionari, vittime e testimoni. Non è teoria. D’altro canto, le decisioni dei giudici internazionali hanno conseguenze politiche obiettive perché accertano crimini di soggetti che agiscono in nome di governi, organizzazioni politiche e milizie. Lo Statuto della Corte penale internazionale attribuisce al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quando agisce per il mantenimento della pace, sia il potere di sollecitare l’apertura di procedimenti, sia quello speculare di sospenderli temporaneamente. Un accordo di cessate il fuoco o di pace può, per esempio, prevedere la provvisoria sospensione di indagini e ordini di arresto. Prerogativa di per sé non irragionevole, purché se ne faccia uso meno arbitrario del potere di veto e non si giochi la pace sulla pelle dei popoli trattati come pedine. Le amnistie, che cancellano i crimini, invece non possono paralizzare l’azione della Corte quando hanno l’obiettivo di garantire l’impunità agli autori delle atrocità di massa.

Tre. C’è una domanda ricorrente che viene dai sopravvissuti: « Perché noi?». In questi tempi disperati, dare voce, speranza e fiducia agli invisibili e offrire una verità, imperfetta ma imparziale e indipendente, è il senso più profondo e umano della giustizia internazionale. L’attribuzione delle responsabilità e la riparazione morale del male ingiusto sono le precondizioni per interrompere il ciclo dell’odio e creare il tempo della pace. È una strada tortuosa che genera numerosi interrogativi. E un’unica certezza, o meglio ambizione, che Martin Luther King condensò in poche parole: « Prevarremo, perché l’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia».

Giudice della Corte penale internazionale

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