martedì 13 luglio 2010
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A sei mesi dal sisma del 12 gennaio le immagini di Haiti che scorrono sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo sono assurdamente simili a quelle che vedemmo con i nostri occhi a poche ore di distanza da una tragedia che cancellò la vita di almeno 200mila persone, lasciando sul terreno 300mila feriti e un milione e 900mila senza tetto. Difficile immaginare uno spettacolo più desolante.Per comune ammissione – dal nunzio apostolico Auza, all’Avsi, a Médecins Sans Frontières, a Save the Children – poco o nulla è cambiato da quei giorni di morte e di sventura. Due milioni di persone sono ancora accampate a Port-au-Prince e nei villaggi vicini, il popolo dei senzatetto che trova riparo sotto un telo di due metri quadrati può dirsi ancora fortunato rispetto al più vasto popolo che una tenda non ce l’ha neppure; 800mila bambini vagano per la capitale senza meta, senza aiuto, senza guida, preda fin troppo facile dei commerci più turpi: quello degli organi – fiorente in tutto il mondo – che all’indomani del sisma trovò un nuovo Eldorado ad Haiti, così come si intensificò il traffico di bimbi attraverso la frontiera con Santo Domingo. Quanto agli aiuti internazionali, reclama Bill Clinton, dei 13 miliardi di dollari promessi dai donatori ne sono arrivati solo un decimo, dei 120 mila alloggi temporanei previsti ne sono stati montati solo duemila. Quasi tutto è ancora fermo, nemmeno le macerie (quasi 20 milioni di metri cubi nella sola capitale) sono state rimosse. Non è finita: stanno per giungere nei Caraibi gli uragani che ogni anno spazzano il Golfo e le piogge torrenziali non fanno che peggiorare una viabilità pesantemente compromessa fin dal giorno del sisma: per spostarsi da Cité Soleil a Petionville, ovvero dal più degradato degli slums della zona portuale all’insediamento sulla collina che ha avuto danni relativamente modesti dal sisma, possono occorrere quattro o cinque ore per sei chilometri di percorso. È un miracolo, dicono gli osservatori internazionali, che non sia esplosa la rivolta, e che un’epidemia non abbia falcidiato la popolazione.Di fronte a questo sfacelo è impossibile non domandarsi se vi sia un responsabile, o forse più d’uno. Per pura misericordia limitiamoci a dire che a frenare ogni iniziativa è la decrepita e corrotta burocrazia haitiana, capace solo di incamerare soldi e di non spenderli, di appropriarsene e nasconderli, di usarli malamente, di bloccare progetti, iniziative (la cattedrale, due seminari, per fare solo un esempio, attendono un fantomatico "certificato di sicurezza"), di lesinare sui permessi e le licenze, di litigare sulla composizione della commissione che dovrebbe sovrintendere alla ricostruzione, ovvero il peggior scenario da Terzo Mondo che avremmo tanto preferito non dover vedere. Questa è Haiti, a sei mesi dal sisma, allegoria della follia umana e di una vergogna collettiva che mette i brividi, per raffigurare la quale più che i concitati reportage delle tv satellitari sarebbero più appropriate le tele brulicanti di sofferente umanità di Bruegel il Vecchio.Eppure, nonostante questa mesta ricorrenza, esiste un’altra Haiti, nemmeno troppo sepolta sotto le macerie dell’inettitudine umana. È la Haiti della solidarietà, delle piccole, piccolissime cose, delle scuole riaperte sotto un telone di plastica, delle case traballanti e sghembe rimesse in piedi a mani nude, del commercio minuto, dei mercatini improvvisati che riaprono, della festa popolare di fronte al ripristino della luce elettrica in un quartiere rimasto per mesi al buio, della mano generosa e quasi sempre lontana dai riflettori di chi sta aiutando gli haitiani a ricominciare daccapo. La vita, cioè, più forte di ogni inettitudine e di ogni orrore. E sarà quella, alla fine, a prevalere sulle macerie e le miserie degli uomini. Su questo non abbiamo alcun dubbio.
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