sabato 24 agosto 2019
La salute perduta spesso decreta l’emarginazione di chi soffre, fino a metterne in discussione la stessa dignità
La solitudine è il prezzo di una cultura che induce a scartare l’inguaribile e il disabile. Le istituzioni devono agire per rovesciare questa «condanna» sociale

La solitudine è il prezzo di una cultura che induce a scartare l’inguaribile e il disabile. Le istituzioni devono agire per rovesciare questa «condanna» sociale

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Nella quotidianità assistiamo sempre più a dichiarazioni relative al concetto di salute, a dignità e ma-lattie inguaribili, a disabilità e condizioni non degne di essere vissute. La realtà deve e può nascere solo dal desiderio e dal bisogno della conoscenza reale e concreta di ciò che ci circonda. In caso contrario, ci troveremo davanti a parole, opinioni, ideologie. Ad esempio quando si è colpiti da una malattia, qualunque essa sia, ma soprattutto se grave e invalidante, a prima vista pare impossibile, se non insensato, coniugarla con il concetto di salute. A volte, però, può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. E mi riferisco in questo senso sia al malato che al curante che ai familiari. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma, se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. «Non vivere di foto ingiallite», scriveva Madre Teresa di Calcutta in una sua preghiera. Ed è proprio questo il nocciolo della questione: pensare a ciò che è possibile fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare.

Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. È salutare perché permette di sentirsi ancora utili per se stessi e per gli altri, incominciando dai propri familiari per proseguire con gli amici e i colleghi di lavoro. Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza paura di soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi da non accorgerci della bellezza delle persone e delle cose che ci circondano. Così, quando è la malattia a fermarci bruscamente può accadere che la nostra scala di valori cambi. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore del- le persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. medici e gli operatori sanitari in generale hanno questa grandissima fortuna: potersi relazionare con l’essere umano che soffre, che al tempo stesso può e riesce a trasmettere e a insegnare molto. Non si possono né si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si I tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive quelle determinate condizioni. Questa idea può aumentare la solitudine dei malati, delle persone disabili e delle loro famiglie, introduce negli individui più fragili il dubbio di poter essere vittime di un programmato disinteresse da parte della società e favorisce decisioni rinunciatarie. Questa è, purtroppo, ciò che io chiamo la cultura del benpensante, o addirittura la cultura dello scarto. Dovrebbero, le istituzioni tutte, rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni appropriati, adatti, opportuni. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno.

Ecco perché penso che un corpo malato possa portare salute all’anima, rendendola più forte più tenace, più determinata. L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella vita precedente. La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’essere conta di più del fare. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita. La circostanza – qualunque essa sia – non è obiezione alla tua felicità e alla speranza, ma ne è il tramite; chiunque, anche in una situazione di difficoltà o di malattia, può essere felice e avere speranza. Quest’ultima poggia sull’incontro con un altro che spera, in cui si intravede la possibilità per sé di vivere ed essere felici e con speranza, già vissuta e in atto. Si pensi, ad esempio, quanto riempie di speranza il vedere un bambino, o una persona giovane, piena di desideri, di attese, di aspettative; quanto questo metta in moto inevitabilmente chi lo guarda, e viceversa. Infatti l’incontro con un’altra persona, più avanti nel cammino e più compiuta, dà speranza al giovane che vi si imbatte e lo segue. La speranza quindi è uno strumento di vita, per acquisire dignità. È bidirezionale: la dai e la ricevi, puoi trasmetterla e ottenerla da chi ti circonda. Così, anche nel rapporto tra una persona malata e chi la cura la dignità e la speranza è posta nell’occhio del curante, quello sguardo che liberamente si pone sull’altro può dare dignità e speranza.

Allo stesso modo, lo sguardo di un malato, di una persona con disabilità, che si volge pieno di speranza a chi lo cura e lo assiste, riempie di dignità l’altro e l’azione che sta compiendo. Si tratta di un fare memoria reciproca: il fatto che l’altro ci sia è fonte di speranza ed è un fatto presente, che deve succedere ogni giorno, soprattutto nella difficoltà. La speranza è ciò che ti fa guardare al futuro poggiando sul presente e su quello che c’è di positivo. È una questione di persone, esseri umani, che portano nel loro profondo una necessità di amare ed essere amati (Benedetto XVI). È un cambiamento culturale a cui noi tutti dovremmo essere chiamati perché non venga alimentata la cosiddetta cultura del benpensante, che diventa una vera e propria ideologia. La Vita è una questione di sguardi e di speranza: un battito di ciglia, lieve e talvolta impercettibile come quello delle ali di una farfalla può davvero divenire testimonianza della pienezza dell’essere, del sentire, e allo stesso tempo diventare un ponte che permette a pieno titolo di sentirsi vivi, parte di qualcosa più grande, con una meravigliosa e inguaribile voglia di vivere.

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