venerdì 7 dicembre 2018
Preso atto che l’economia sta purtroppo rallentando, il governo è sicuro che valga la pena andare allo scontro finale più che con Bruxelles con i mercati e col buon senso?
Dobbiamo unire i punti di forza
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Preso atto che l’economia sta purtroppo rallentando, il governo è sicuro che valga la pena andare allo scontro finale più che con Bruxelles con i mercati e col buon senso? L’Italia è un Paese ricco con uno Stato povero. Non sembra perciò proficuo insistere su tentativi di redistribuzione della spesa, i cui effetti non sono scontati quando il problema è il "portafoglio" del proprio elettorato, che più di tutto teme l’aumento dei tassi sui mutui, la difficoltà di ottenere credito per la propria azienda, la perdita di posti di lavoro. Questo elettore-risparmiatore ha memoria di elefante e gambe da lepre. Anche nelle urne. La ricetta della crescita non può che ripartire dalla soluzione di una formula complicata, l’incrocio tra debito e tasse, la cui soluzione cerchiamo da anni. Partiamo dal debito. Secondo un’analisi di Roberto Poli, dalla firma nel 1992 del Trattato di Maastricht a oggi l’Italia ha cumulato avanzi primari per complessivi per 676 miliardi di euro: più del doppio dei virtuosi tedeschi.

Questo significa che abbiamo rimpinzato il salvadanaio prima di pagare gli interessi sul debito, e senza mai romperlo. Nonostante le varie recessioni che si sono succedute, l’aumento della spesa pensionistica e della disoccupazione. A questo sacrificio si somma il fatto che sempre nello stesso periodo sono state varate privatizzazioni per circa 200 miliardi di euro, con il risultato che ora non abbiamo quasi più un’azienda nazionale di dimensioni globali, mentre il debito pubblico è comunque aumentato di circa 30 punti percentuali. Solo di spesa per interessi negli stessi anni abbiamo infatti bruciato in tutto 1.924 miliardi.

Lo Stato è divenuto una macchina che lavora solo per pagare il costo del suo indebitamento. Mancano due cose fondamentali: una strategia per tagliare strutturalmente il debito e una due diligence (verifica) aggiornata sul patrimonio statale da dismettere. Senza di esse non si potrà che vivere alla giornata, dovendo emettere 400 miliardi di titoli di Stato in media all’anno e pagare 65-70 miliardi di interessi, per intendersi quanto costa tutta l’istruzione.

Gli italiani, pur vessati dalle tasse, sono invece messi molto meglio dell’amministrazione pubblica. La ricchezza privata ha raggiunto la quota incredibile di 10mila miliardi di euro tra beni immobili e beni mobili. La bilancia dei pagamenti è in avanzo come quella commerciale, la propensione al risparmio cresce, la raccolta bancaria complessiva dalla clientela residente la segue (è passata da 1.693 miliardi del settembre 2016 a 1.724 miliardi), l’export ha raggiunto un surplus di 448 miliardi di euro.

A differenza dello Stato italiano, lo stock del debito delle famiglie in rapporto al Pil è molto più contenuta rispetto al resto dell’Eurozona: 41,1% contro il 57,8%. Insomma, noi italiani saremmo ben sotto ai parametri di Maastricht! Lo stato patrimoniale degli abitanti della Penisola è, dunque, solido come una roccia, erosa però da pesanti ipoteche che gli derivano dallo Stato: 37mila euro di debito, più altri 1.000 di interessi a testa e quasi 8.300 euro di tasse all’anno da versare all’Erario, che diventano 12mila considerati i contributi previdenziali. Un fardello di 50mila euro in tutto, per ciascuno italiano, neonati compresi. Se ne nasceranno ancora, senza alcun strutturale sostegno alle famiglie. Il quadro è chiaro.

Eppure si va avanti sempre sullo stesso crinale: più indebitamento e maggiore imposizione, come se la seconda variabile non fosse la diretta conseguenza del primo. Serve un’inversione di marcia nella manovra. Magari evitare di spendere 16 miliardi in reddito di cittadinanza e riforma della Fornero, quando con solo altri sei si potrebbe varare la cancellazione dell’Irap, la tassa più iniqua che ci sia perché si paga anche sulle perdite. Non applaudirebbe solo il popolo della Lega...

E con altri 12 miliardi si potrebbe avviare una riduzione dell’Irpef più bassa e un rafforzamento del reddito di inclusione, che sta a cuore al Movimento 5 Stelle. Si arriverebbe, è vero, ancora più vicini al 3% di deficit-Pil ma almeno avrebbe un senso non rispettare i parametri europei perché si eviterebbe la vittoria del partito che tutti devono temere: quello della decrescita infelice.

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