sabato 8 giugno 2013
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Ben mediocre deve essere l’opinione che l’onorevole Giancarlo Galan nutre verso coloro che si oppongono al matrimonio gay, se pensa di attenuare le loro riserve ricorrendo a eufemismi. Nel suo disegno di legge sulle «unioni omoaffettive» la parola "matrimonio" non compare mai, «perché avrebbe urtato alcune sensibilità, più del contenuto». Mi sembra quindi necessario tornare a spiegare al nostro parlamentare (e a coloro che insieme a lui hanno firmato il disegno di legge o che comunque ne condividono le aspirazioni) che quando si discute sul matrimonio gay la posta in gioco non è emotiva, non è psicologica, non concerne i sentimenti, non riguarda affatto la "sensibilità" (né meno che mai la fede religiosa, come Galan sembra supporre), ma è invece rigorosamente sociale. Per capire la sostanza della questione e per aprire sul matrimonio gay un dibattito intellettualmente onesto dobbiamo portare il dibattito non sul piano dei sentimenti ma su quello della politica, che è l’unico che dovrebbe rilevare in una società democratica, nella quale il Parlamento dovrebbe sempre legiferare per massimizzare il bene comune e per nessun’altra ragione al mondo. Il matrimonio non esiste per garantire le sensibilità dei coniugi, ma per consentire la costruzione di comunità familiari, alle quali la società (per mezzo dello Stato) affida i progetti intergenerazionali di convivenza. L’affettività coniugale è preziosissima, ma non ha rilievo giuridico, né per ciò che concerne il costituirsi del matrimonio, né per quel che riguarda il suo eventuale scioglimento. Quello che conta per il diritto è che il patto matrimoniale sia stipulato tra persone consapevoli e libere, responsabilmente proiettate in un futuro generativo. Coloro che non possono (per ragioni biologiche) o non vogliono intenzionalmente assumere impegni che di principio abbiano un carattere generativo di solito non individuano ragioni adeguate per sposarsi, oppure, se si sposano, (come avviene nel caso di alcune coppie che arrivano al matrimonio in tarda età) lo fanno per rendere un omaggio al valore simbolico della coniugalità e non certo per negarne la sua strutturale funzione sociale. Che la tutela che Galan vorrebbe riconoscere alle "unioni omoaffettive" non sia finalizzata a rispondere a reali esigenze sociali ma solo a soddisfare esigenze simbolico-psicologiche e non sociali di convivenza (esigenze che non nego possano essere rispettabili, ma che ricadono al di fuori del diritto) è mostrato anche dal fatto che nel suo disegno di legge le unioni «omoaffettive» sarebbero sostanzialmente analoghe a quelle coniugali, ma più semplificate, meno burocratiche: basterebbero tre mesi di separazione per poterne avviare lo scioglimento. Non potrebbe esserci prova migliore del fatto che queste unioni non si proiettano nel futuro (come quelle coniugali), ma vivono solo nel presente e del presente. Perché allora legalizzarle in senso matrimoniale, correndo il rischio, molto concreto, che in tal modo per una sorta di inevitabile effetto mimetico si aprano ulteriori strade alla legalizzazione non solo del cosiddetto "divorzio breve", ma addirittura di un divorzio "brevissimo"? L’ipotesi di un divorzio "istantaneo" non è una mera provocazione: esistono Paesi in cui basta una telefonata agli uffici anagrafici per attivare lo scioglimento del vincolo coniugale. Il che significa che la totale degiuridicizzazione del matrimonio e della famiglia è all’orizzonte: chi vuole giungere a tanto è pregato di dirlo esplicitamente e soprattutto di fornirne ragioni politico-sociali adeguate e di non percorrere le vie furbesche della "semplificazione" o della "deburocratizzazione" della normativa vigente. È su questi temi – e non su quello dei sentimenti – che la vera discussione è aperta, qui va concentrata.
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