Un'apertura per il mondo
domenica 22 gennaio 2023

La Cina si sta riaprendo. Non solo per la caduta delle restrizioni anti-Covid che rendono ora possibile viaggiare da e verso il gigante d’Oriente. Molti segnali confermano una tendenza già emersa nei mesi scorsi: la stretta di mano tra Xi Jinping e Joe Biden a Bali, la nomina a ministro degli Esteri dell’ambasciatore a Washington Qin Gang, il lungo incontro a Davos tra la statunitense Yellen e il cinese Liu He, il rilancio delle imprese private dopo la stretta su Alibaba e altre big companies, la proiezione di film hollywoodiani nelle sale cinesi… Intanto, Xi Jinping ha espresso preoccupazione per la guerra in Ucraina e ricevendo il cancelliere tedesco Scholz ha ribadito la condanna dell’uso di armi atomiche, scontentando in entrambi i casi l’“amico” Putin. È sorprendente come la Cina – che a molti sembrava ingessata e immobile – si mostri capace di cambiamenti importanti e rapidi.

Va anzitutto chiarito che non è affatto un’apertura totale o incondizionata. Non sappiamo neanche se continuerà a lungo e in modo stabile. Tuttavia, è inevitabile il paragone con «la politica di riforme e apertura» adottata da Deng Xiaoping all’inizio degli anni Ottanta. La Cina non è più la stessa. «La politica estera di Deng è diventata anacronistica. Il suo approccio era concepito per un Paese sia povero sia debole: la Cina è ancora relativamente povera, ma chiaramente non è più debole»: Martin Jacques lo scriveva già nel 2015 e oggi è ancora più vero. L’Occidente, dunque, non può adottare lo stesso atteggiamento di quarant’anni fa.

Non sono più praticabili comportamenti paternalistici, come ammoniva già nel 1972 John Fairbank, e non si tratta di aiutare la Cina a crescere, sperando che strada facendo diventi più “occidentale”, come si è creduto fino alla crisi economica del 2007. Oggi la Cina, piaccia o non piaccia, c’è ed è quella che è. È logico chiedersi quali motivi e interessi ispirino l’attuale apertura e fanno pensare in questo senso notizie come quelle sulla ridotta crescita del Pil e sulla “frenata demografica”. Ma, quali che siano le ragioni, è evidente che oggi la Cina ha di nuovo bisogno di aprirsi a più intensi contatti internazionali. E, ancor più di ieri, ciò costituisce una sfida e una chance cui l’Occidente non può sottrarsi. È – almeno potenzialmente – la sfida e la chance di costruire un nuovo ordine internazionale che tenga conto degli equilibri del XXI secolo.

Senza una risposta occidentale, l’apertura verrà meno e la Cina tornerà a chiudersi; se la risposta sarà efficace, condizionerà tempi, modi e obiettivi di tale apertura (influendo, indirettamente, anche sugli sviluppi della società cinese). Ma chi deve dare tale risposta? Anzitutto gli Stati Uniti d’America, ma l’amministrazione Biden – che sta elaborando una nuova politica verso la Cina: Blinken sarà a Pechino ai primi di febbraio – deve fare i conti con una classe politica e un’opinione pubblica inclini allo scontro. E l’Europa? Scholz ha recentemente visitato la Cina e a breve lo farà anche il presidente francese Macron.

Ma è sbagliato che gli europei vadano in ordine sparso all’incontro con l’interlocutore cinese. Anche Giorgia Meloni è stata invitata a Pechino, ma se la premier vuole difendere davvero gli interessi italiani deve farsi promotrice di un’iniziativa europea. Solo rappresentando un mercato di 450 milioni di produttori e consumatori è possibile un confronto vero con la Repubblica popolare cinese sulle grandi questioni in gioco. E bisogna ripartire dal grande accordo tra Unione Europea e Cina raggiunto nel 2020 e poi congelato: non era solo vantaggioso per gli europei, ma imponeva anche limiti allo sfruttamento della manodopera nelle imprese cinesi.

Ovviamente, l’Occidente non può e non deve rinunciare alla difesa dei propri valori, alla tutela dei diritti umani e all’affermazione della libertà religiosa, ma bandire una nuova guerra fredda tra democrazie e autocrazie è tutt’altra cosa. Ci sono terreni di collaborazione su cui valori e interessi possono incontrarsi. È il caso del cambiamento climatico. Ma ancora più importante è il banco di prova della guerra in Ucraina causata dall’aggressione russa. Gli occidentali sollecitano Pechino a fare pressioni su Mosca. E i cinesi sono convinti che la guerra non può finire senza un intervento occidentale su Kiev. Occidente e Cina devono mettersi reciprocamente alla prova anzitutto impegnandosi insieme per fermare questa tragedia.

Se c’è davvero la volontà di costruire un nuovo ordine internazionale basato su regole condivise, la prima non può non essere il rifiuto della guerra quale strumento di soluzione delle controversie internazionali. Ed p una regola che va messa anzitutto in pratica per far finire lo scandalo di un conflitto terribile nel cuore dell’Europa dopo undici mesi di atrocità e distruzioni.

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