sabato 9 agosto 2014
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Da anni il dibattito italiano sulle riforme costituzionali – uno dei più inconcludenti fra quelli che si svolgono nelle democrazie consolidate – è percorso da visioni manichee, che contrappongono concezioni mistiche e apocalittiche della Costituzione italiana del 1947. Le visioni 'mistiche' sono state ben volgarizzate dal genio comico di Roberto Benigni, che ha definito la Costituzione vigente come «la più bella del mondo», ma si tratta della traduzione 'in lingua volgare' di un sentire diffuso in una parte importante della cultura e della politica italiane. Le concezioni 'apocalittiche', invece, hanno avuto notevole peso fra l’inizio degli anni Novanta e il referendum costituzionale del 2006: esse – muovendo talora dalla qualificazione come «sovietica» (!) della Costituzione vigente – proponevano di introdurre un sistema di governo radicalmente diverso, interpretando la 'Seconda Repubblica' come una alternativa radicale alla Carta del 1947, e non solo come una reinterpretazione di alcuni suoi meccanismi decisionali. Se si vuole, il manifesto di questo modo di pensare può essere ritrovato nella dichiarazione comune degli onorevoli Fini, Bossi e Berlusconi all’indomani delle elezioni del 1994, in favore di una Costituzione «presidenziale» e «federale». Il manicheismo che sta dietro queste contrapposizioni è duro a morire e la sua ultima riformulazione – proposta martedì scorso su la Repubblica  da Gustavo Zagrebelsky – suona in questo modo: da un lato la cultura del decidere, del semplificare, tendenzialmente antiparlamentare, imperniata sul governo (una Costituzione, dunque, executive style); dall’altro una visione più complessa ed appesantita di democrazia, coincidente con l’assetto costituzionale attuale. La riforma del Senato approvata ieri in prima lettura dall’Assemblea di Palazzo Madama sarebbe un esempio del primo tipo di Costituzione ed andrebbe per questo motivo combattuta. Si tratta, però, di una ricostruzione che, a nostro avviso, prescinde del tutto dal uscito dall’aula del Senato. Se essa contiene un briciolo di verità, ciò riguarda alcuni aspetti del progetto di legge elettorale (il cosiddetto Italicum), nella versione approvata alla Camera a febbraio (soglie di sbarramento troppo alte e soglie per il premio troppo basse, oltre che troppo ridotto potere di scelta degli elettori rispetto ai singoli parlamentari). Ma la riforma del Senato non ha nulla di decisionista, né altera le dinamiche fondamentali del regime parlamentare. Essa consiste, piuttosto, nell’eliminazione di alcune anomalie del regime parlamentare italiano rispetto alle forme che tale sistema di governo ha assunto in Europa. Si tratta, insomma, di una 'terza via' fra l’assemblearismo degli anni Settanta – che piace molto a Zagrebelsky e a numerosi editorialisti de il Manifesto intervenuti su questi temi nei giorni scorsi – e le derive semipresidenziali. È la strada del regime parlamentare razionalizzato, la ripresa di un tentativo di 'evitare le degenerazioni del parlamentarismo', come si disse nell’ordine del giorno Perassi, approvato nel settembre 1946 dalla II Sottocommissione della Costituente, ma rimasto poi incompiuto. Oggi la principale, anche se non l’unica, degenerazione del parlamentarismo italiano è il bicameralismo-fotocopia con parità di poteri fra le due Camere, che è un prodotto unico, quasi come il Parmigiano Reggiano, ma non con la stessa qualità e non invidiato da nessuno degli osservatori di cose italiane dall’estero. In realtà, la riforma costituzionale  in itinere – pur non priva di alcuni limiti, che riguardano però, a nostro avviso, soprattutto una mancanza di chiarezza sul ruolo delle autonomie territoriali, e in particolare delle Regioni – è un buon esempio di 'terza via' rispetto al manicheismo italiano in fatto di riforme. Essa si colloca attorno al minimo comune denominatore delle tante proposte di riforma costituzionale discusse negli ultimi ’30 anni nella classe politica e fra i costituzionalisti e gli scienziati della politica. Non cambia Costituzione, ma cambia la Costituzione, nel senso che non crea una Costituzione nuova, ma rinnova quella vigente, per adeguarla a tempi diversi dal 1947 e dagli anni Settanta del secolo scorso.
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